venerdì 27 dicembre 2013

AVETE SCRITTO LA VOSTRA STORIA: È ARRIVATO IL MOMENTO DELLA PROVA DEL NOVE


Scrivendo un romanzo o una sceneggiatura vi è capitato, giunti in dirittura di arrivo, di avere la sensazione di aver perso il filo del discorso? Soprattutto se avete messo in campo molti personaggi secondari e nel raccontarli tutti avete smarrito il fuoco delle vostre intenzioni?
Per verificare se la vostra sensazione è giusta vi suggerisco una specie di prova del nove simile a quelle che si facevano a scuola per stabilire se le operazioni erano corrette.

Ci sono due importanti snodi nella struttura di un racconto, uno alla fine del primo atto chiamato Prospettiva di Morte, l’altro alla fine del secondo atto chiamato Punto di Morte. Due snodi-chiave che, nel percorso del protagonista, devono essere conseguenziali.

La Prospettiva di Morte indica cosa sarebbe la vita del protagonista se non accettasse la sfida a cui è stato chiamato. Una specie di palla di vetro in cui, esitando ad agire, ‘egli v’intravede l’infelice destino’. Sul piano emotivo è la sensazione che possiamo provare di fronte a un evento che percepiamo pericoloso ma a cui siamo chiamati. Un dente che fa male: il pensiero delle pinze del dentista ci paralizza, allora pensiamo di tamponare la situazione con degli analgesici, sicuri che alla fine il dolore passerà (così entriamo nel secodo atto).
Il Punto di Morte, invece, è il momento in cui (alla fine del secondo atto) il protagonista non ha più vie di scampo, o scuse attraverso le quali sottrarsi al proprio destino. Nella Prospettiva egli ha intravisto un pericolo, nel Punto di Morte lo vive. Si tratta dello stesso stato emotivo ma ad un livello più profondo. Il problema del dente tamponato con gli analgesici è degenerato in un’infiammazione alla bocca. Il protagonista non ha più vie d’uscita: tenersi l’infiammazione oppure affrontare le pinze del dentista.

Questi due punti sono conseguenziali: nella Prospettiva lasciamo intravedere cosa potrebbe succedere al protagonista se non cura il dente, nel Punto di Morte come si concretizza realmente questa mancata cura (esplosione dell’infiammazione).

La Prospettiva di Morte cioè profetizza il Punto di Morte, ne è il presupposto.

Alla fine del primo atto al protagonista viene mostrata una prospettiva negativa rispetto al suo non-curare il dolore alla radice, mentre alla fine del secondo atto la ‘profezia’ si avvera con la constazione che gli analgesici non hanno risolto il problema ma hanno lasciato che si aggravasse.

Avete prospettato una minaccia e la fate materializzare… Cioè il Punto di Morte come conseguenza della Prospettiva di Morte. Se è quello che avete fatto nel vostro racconto, i conti tornano. Avete centrato il ‘problema’ del protagonista… quindi avrete un appasionante climax.



giovedì 19 dicembre 2013

I QUATTRO ERRORI PIU' COMUNI QUANDO SI SCRIVE UNA STORIA


Avete appena finito di scrivere la vostra storia. Avete sputato anima e sangue per arrivare alla parola fine. Siete orgogliosi di voi. Ma qualche dubbio vi assale. Bene, non esiste un vero scrittore senza dubbi. Qualcosa di nuovo da imparare c’è sempre. Ogni tanto qualcuno mi chiede quali siano gli errori più comuni di struttura quando si scrive una storia o una sceneggiatura. Me ne vengono in mente quattro, forse i più frequenti.

1) Non definire il fatal flow del protagonista all’inizio della storia. Uno degli errori più diffusi, forse il più grave.
L’autore stabilisce che il protagonista ha un problema e indica esclusivamente la sua soluzione esterna.
All’inizio di Miss Little Sunshine, Richard Hoover (Greg Kinnear) tiene una conferenza sui cosiddetti nove passi per raggiungere il successo (necessità esterna). Il proposito sembra del tutto legittimo e le sue argomentazioni paiono all’altezza.
Il vero problema viene tuttavia indicato attraverso un abile controcampo grazie al quale lo spettatore scopre che la sala è pressoché deserta. Richard ha valide ambizioni ma c’è qualcosa che nella sua comunicazione non funziona! È questo il fatal flow, l’effetto cioè sulla sua vita di questo difetto di comunicazione: nessuno lo ascolta, non viene ascoltato.
L’autore potrebbe essere infatti spinto a descrivere lo scopo del protagonista semplicemente illustrandolo, mostrando il suo obbiettivo da raggiungere (vendere, in questo caso, un libro che lo renderà felice e realizzato), omettendo però il vuoto che tale mancata vendita comporta per lui.
Ne Il Mago di Oz, Dorothy all’inizio è chiamata a ravvivare la vita dei due anziani zii, e questo indica ugualmente (invece che in maniera sottrattiva, in maniera addizionale), il problema della ragazzina, distratta dal rallegrare gli altri e non impegnata a rallegrare sé stessa. Un bel problema, no?
L’autore all’inizio deve sforzarsi di rappresentare ciò che non c’è nella vita del protagonista, o ciò che la vita che conduce gli sottrae di vitale. Vedere un atleta che salta gli ostacoli è appassionante, lo è di più se conosciamo cosa rischia se non lo fa.

2) Dimenticare di sottolineare l’esigenza emotiva del protagonista nella prospettiva di morte, alla fine del Primo Atto.
Questo succede quando l’autore “dimentica” di soddisfare una domanda: cosa succederebbe al protagonista se non affrontasse il conflitto del secondo atto?
L’autore spesso scaraventa il protagonista nel secondo atto per ovvie esigenze di racconto senza stabilire la sua posta emotiva in palio, cioè l’urgenza che l’autore stesso deve rendere plausibile affinché il protagonista getti il cuore oltre l’ostacolo.
C’è un bellissimo esempio in Rocky, quando Sylvester Stallone, dopo essere stato sfidato dal campione di turno ed aver mostrato di volersi sottrare a quella sfida, torna a casa e trova dentro l’ampolla il suo pesciolino rosso morto. Cioè: qualcosa di vitale muore se non accetto di mettermi in gioco.
È importantissimo infatti suggerire cosa sarebbe la vita del protagonista se evitasse di entrare in contatto con il problema segnalato nel fatal flow. Farlo permette all’autore di caratterizzare e amplificare le resistenze del protagonista nel secondo atto, di dare risalto a tutti i suoi sforzi creando una forte empatìa da parte del lettore o dello spettatore.

3) Sottrarre il protagonista alla riflessione sul proprio problema emotivo, dopo l’incontro con la propria ombra.
Il protagonista, a metà storia circa, incontra la propria ombra. In genere da questo incontro ne esce con le ossa rotte, e ciò gli genera una nuova, parziale, consapevolezza, costituita essenzialmente dalla scoperta della propria debolezza. Il protagonista cioè percepisce che non basta più agire forti delle proprie convinzioni, ma che esiste un altro dato, interiore, con cui deve fare i conti. Si tratta di una parziale adesione ai propri limiti, la scoperta di essi, che da quel momento in poi costituiranno il vero ostacolo da superare.
Spesso l’autore bypassa questo momento raddoppiando al protagonista le prove da superare. E la storia finisce così per essere una sterile corsa ad ostacoli al termine della quale il protagonista ce la fa o meno.
Nei racconti di genere, per esempio, questo momento è evidenziato dalla ricerca che il protagonista interrompe all’esterno di sé per rivolgerla all’interno di sé. Nei thriller l’investigatore, a metà film, ha infatti un’ulteriore sollecitazione perché diventa lui stesso l’obbiettivo del cattivo di turno. Cioè deve imparare a sopravvivergli.
Nelle commedie sentimentali, il senso non cambia. Un’esempio emblematico è reso nel film Qualcosa è cambiato. Melvin Udall (Jack Nicholson), a metà racconto, si ritrova al ristorante con Carol Connelly (Helen Hunt). Melvin è finalmente riuscito a portarla a cena fuori ma, quando si trova a dover esprimere i propri sentimenti, finisce per essere molto indelicato. Carol lo pianta in asso, e lui così impatta la necessità di mettere in gioco la propria debolezza, caratterizzata, in ogni storia d’amore, dalla paura del protagonista di mostrare apertamente i propri sentimenti.
Per ovviare a questo errore bisogna fare in modo che tale mancanza del protagonista, a questo punto, sia chiara. Il protagonista ha perso una battaglia ma deve percepire che gli esiti della guerra dipendono solo ed esclusivamente dall’affrontare le proprie paure. Dal capire cioè che all’amore non si resiste, si cede.

4) Non mandare il protagonista al climax, alla fine del terzo atto.
Il più classico degli errori, soprattutto nei gialli e nei racconti d’azione dove può accadere che l’autore mandi qualcun altro allo scontro finale al posto del protagonista.
Questo succede quando la spinta del protagonista è data soltanto dai fatti narrati dalla storia e non dalle necessità psicologiche che lo spingono ad agire.
Una storia di vendetta, per esempio, non è data soltanto dal fatto che a una certa persona è stato ucciso un familiare e che perciò vuole trovare i colpevoli e ucciderli; è data anche, e soprattutto, dal conflitto che il protagonista vive nel compiere questa azione, un tormento che magari lo spingerà, nel climax, a ricavare da quell’atto scellerato una lezione umana più importante.
Senza un conflitto interiore tutto si riduce a se uccidere o non uccidere il cattivo. L’autore, in questi casi, è spinto a ritenere che, dato che il suo protagonista non può essere cattivo, l’ònere dello scontro finale può essere delegato a qualcun altro, cosa che, apparentemente, salva il protagonista dal mostrarsi a sua volta cattivo.
Invece deve essere il protagonista ad ‘andare fino in fondo’, deve affrontare lui il problema, cioè la propria paura. Il climax rappresenta la sintesi di tutto ciò che il protagonista ha appreso fino a quel momento, il logos in cui egli agisce diversamente rispetto al passato. Sollevarlo da questa prova, anche se dura, è una specie di amputazione narrativa. Perché se il nostro protagonista non si sarà sottratto al proprio conflitto interiore, a questo punto non vedrà l’ora di affrontarlo.

Come avrete notato, gli errori più comuni in una struttura narrativa riguardano la costruzione del protagonista. Dobbiamo mettere tutta la nostra attenzione su quanto sia importante crare un buon personaggio per costruire una buona storia.

giovedì 3 ottobre 2013

Il CINEMA e la VITA secondo Ignazio Majore, psicanalista



Pubblico con grande piacere l'intervista al prof. Ignazio Majore, noto psicanalista e appassionato di cinema.

Professor Majore, lei ha elaborato un nuovo approccio psicanalitico che si chiama analisi mentale. Ci può spiegare in cosa consiste, soprattutto rispetto ai metodi psicanalitici classici?
Per Freud nell’inconscio sono accumulati eventi e contenuti proibiti, di  conseguenza rimossi. Non pare realistica la sua teoria  della rimozione che sostiene che nell’inconscio sono  accumulate le istanze peggiori dell’uomo.  E’ un artefatto biologico, che vorrebbe l’essere umano pessimo dentro se stesso ma apparentemente controllato fuori di lui;  una maniera che non ha riscontro in alcun modo nella vita animale. E’ vero che i livelli biologici si muovono autonomamente ma in realtà l’uomo ha una costruzione mentale complessa  che serve  a controllare le istanze biologiche ma anche a dare loro campo. Quando la persona esprime una richiesta della sua biologia, cerca di non morire e successivamente, adopera  la sessualità per non fare morire la sua specie.
La divisione più significativa  tra gli umani è invece, quella tra l’essere singolo e il collettivo. Il movimento  e la struttura collettiva ci accomunano tutti,  formano ogni gruppo. Noi animali biologici di base, ci muoviamo lungo la medesima linea che è uguale per tutti. Nell’ambito del collettivo, una struttura generalizzata, ciascuno cerca di acquisire dal medesimo gli aspetti che a lui sembrano più congeniali, o migliori. Individualità non significa lottare contro il collettivo ma prelevarne quelle frazioni che lo possono portare ad un progresso. Il concetto di collettivo a me sembra  importante più che la divisione tra conscio e inconscio. E’ la struttura che accomuna tutti e li porta a comportamenti standardizzati: così è una manifestazione pubblica o addirittura  la guerra, certamente un fatto collettivo: si va in guerra perché il collettivo la comanda per le sue esigenze che sono esigenze precise: far vivere e far morire. Ciò non a vantaggio dell’individuo ma per la vita in genere. Nelle guerre ad esempio, rappresentazione massima di collettivo, questi decide che vanno eliminate  gruppi di persone , ciò paradossalmente serve alla vita che deve permanere a prezzo di sacrificare parti di sé. L’individuo cerca di prendere per se quello che può dal collettivo stesso: ciò significa che tenta di lottare per la vita contro la morte con i propri mezzi ma insieme con la lotta del collettivo.
In sintesi, l’Analisi Mentale, vede il dramma umano condensato nella lotta tra la vita e la morte, non nel contrasto inesistente tra conscio ed inconscio, quest’ultimo supposto serbatoio di ogni male.
Il lavoro dell’analisi mentale consiste quindi principalmente, ma non solamente, nell’appoggiare la lotta dell’uomo per la sua vita, cercando di alleggerirlo di quelle frazione di morte che lo infiltrano nella mente e nella stessa struttura biologica. E’ un’opera analitica continua che cerca di individuare le zone della sua personalità ove la mortificazione ha impedito o danneggiato il suo sviluppo.

Che valore ha per lei il concetto di morte?
Da quanto ho detto si può ricavare che mentre la morte, nella sua totalità è la fine della vita, è insieme presente dentro tutto il corso della vita medesima e per tutta la sua durata. Di essa è una componente.  E’ minaccia costante ma insieme è stimolo a vivere, quindi è la sua compagna. La capacità a vivere è infatti  capacità a reagire allo stimolo della morte. Ogni atto fisiologico, anche se mentale, è reazione alla stessa. Il neonato urla perché sta morendo, con il suo urlo comincia a respirare ed inizia la sua battaglia.

Che cosa rappresenta per lei il cinema?
Il cinema è prolungamento della vita. Una vita che si aggiunge alla nostra e dà la sensazione che questa sia per continuare.
Nel cinema, come nel sogno, sono rappresentati gli incontri con la morte, sono i punti di morte; vi vengono suggeriti i modi per sopravanzarli. Anche se lo stesso ci dice  che talvolta i nostri sforzi saranno vani.
Il cinema rispecchia e salva la vita in genere, la vita del collettivo, anche se il singolo dovrà soccombere.   Ci dice che la stessa proseguirà, forse per sempre. Come le religioni tende all’eternità, al mai finito. Ognuno sa che la vita proseguirà fuori della sua durata perché il film rappresenta solo una frazione di una storia che durerà fuori di esso.

Cosa si aspetta di vedere uno spettatore?
Lo spettatore vorrebbe sapere come si fa a proseguire a vivere rimanendo indenne e vi cerca i trucchi per poterlo fare. Trucchi, perché sa che il cinema è anche una truccatura della vita e spera di imparare l’arte di mostrarsi diverso e quindi meno aggredibile di quanto pensa e teme di essere. Vuole travestirsi per offrire bersaglio minore.

Infine, che cosa 'ispira' lo scrittore? 
Lo scrittore è mosso dalla speranza di trascendere se stesso: i propri limiti che sono quelli della vita. Un anelito simile a quello religioso che  costruisce un’esistenza probabile e possibilmente eterna. L’eternità dello scrittore è nella sua opera, nella speranza che questa gli sopravvivrà.


lunedì 19 agosto 2013

Intelligenti o Emotivi?



Per facilitare la costruzione dei protagonisti di una storia, in genere immagino due categorie di persone: gli ‘intelligenti’ e gli ‘emotivi’. Due categorie umane che già con alcuni colleghi uso per indicare le visioni opposte e complementari dei due antagonisti.
L’‘intelligente’ e l’‘emotivo’ sono espressioni di risposte relative ad un unico problema di base, la ricerca dell’amore. Ciò li rende facce della stessa medaglia, simili a due fratelli (o sorelle) con gli stessi genitori: provengono dallo stesso “problema” ma hanno adottato risposte diverse. Capita spesso di osservarlo nei fratelli: “sono due gocce d’acqua, ma uno è l’opposto dell’altro!”
Cioè uno dei due fratelli (cosiccome succede tra uomo e donna), ha adottato una risposta ‘intelligente’, razionale, strategica, chiusa, che disattende la propria parte emotiva, mentre l’altro ne ha adottata una ‘emotiva’, temperamentale, aperta ed esposta alle delusioni. 
Due nicchie, o specializzazioni, atte alla sopravvivenza in un unico contesto - quello familiare e sociale - evitando sovrapposizioni.

In pratica per l’’intelligente’ esiste principalmente il mondo dell’altro da tenere a bada, sui cui regola le proprie reazioni; per l’’emotivo’ esiste solo il proprio mondo che fa da metro di misura per tutto ciò che sta al di fuori di lui.
Queste due categorie (naturalmente generiche, in realtà sappiamo che il nostro carattere è formato da una molteplicità di fattori), sono però utilissime nella costruzione dei personaggi di un film, soprattutto se si tratta commedie, meglio se sentimentali. Come sappiamo l’obiettivo del protagonista, soprattutto nella commedia sentimentale, è in sostanza quello di integrare la parte mancante. (Ovvero l’Anima junghiana, quella parte di noi 'intorpidita' che ci rende impossibile un amore pieno, cosa di cui all’inizio il protagonista mostra di soffrire).
Queste due grandi categorie – intelligente ed emotivo - fotografano bene le vicende sentimentali delle coppie rappresentate al cinema (o nei romanzi), solitamente formate da questi due grandi ‘caratteri’: uno intelligente, in genere l’uomo, l’altra emotiva, in genere la donna.
Un vecchio sceneggiatore - a spiegazione di questa divisione un po' brutale di ruoli - un giorno mi disse che questo era piuttosto inevitabile, che l'uomo cioè non andasse tanto per il sottile a differenza alla donna, poiché come spermatozoo inserito in una brutale lotta contro milioni di suoi simili al fine di conquistare un unico ovulo, che se avesse chiesto scusa o permesso non avrebbe fatto un metro.
In sostanza in un racconto o in un romanzo viene riprodotta questa stessa tensione biologica, e allo spermetto e all'ovuletta vengono dati un nome e un cognome, un vestito, una casa, un lavoro, degli amici. E questa riunione, a livello narrativo, è rappresentata dell'esplosione finale dell'amore.
Diciamo che questo genere di racconto - lui intelligente, lei emotiva - rappresenta il racconto base, all'interno del quale naturalmente esistono alcune variazioni narrative, di cui parleremo più avanti.
E noi, per scrivere un film, dobbiamo tenere conto di queste due caratterizzazioni estreme poiché – come detto – lo scopo del film è “soltanto” rappresentato dalla possibilità di far integrare le due parti al protagonista. (E lui infine chiede all'amata di sposarlo).

Una curiosità che si può rilevare rispetto alle coppie, nella vita reale (per le mie conoscenze e le mie esperienze), è che la coppia destinata a durare di più nel tempo è appunto la coppia formata da un intelligente e da una emotiva (quasi identiche le possibilità tra un emotivo e una intelligente); c’è poi la coppia formata da due emotivi, sia lui che lei: è la coppia che rappresenta il cosiddetto ‘colpo di fulmine’, due che s’incendiano e che si lasciano dopo al massimo un paio di anni; infine c’è la coppia formata da due intelligenti, coppia anomala, la cui genesi può richiedere mesi, se non addirittura anni. Abituati come sono a prendere in considerazione soltanto l’emotività dell’altro potrebbero metterci anni prima di riuscire a comunicare la propria.

Voi di che coppia siete? È un’osservazione che potete fare su voi stessi per capire la vostra ‘storia’, la sceneggiatura nella quale siete inseriti. Insomma, se volete cominciare una storia d’amore (come sceneggiatori perlomeno!), analizzate il tipo di protagonisti che volete mettere in campo. Questa suddivisione a livello narrativo dovrà essere netta per dare forza alla tensione che alla fine, vedendoli riuniti, moltiplicherà l'entusiasmo dello spettatore o del lettore.
L’esempio più classico di un intelligente e di una emotiva al cinema è Pretty Woman. Oppure esemplare è (in questo senso) Qualcosa è cambiato. Nella letteratura spiccano Orgoglio e Pregiudizio e il bellissimo Cime Tempestose. Ma ci sono moltissimi altri esempi sicuramente più pertinenti al vostro gusto.

Lui trattenuto e strategico, lei aperta ed esposta: due risposte differenti ad un unico problema. Risposte che abbiamo adottato in fasce e sulle quali ci siamo costruiti una vita (sognando un giorno d’incontrare la parte che ci manca).
Perché la vita affettiva di ciascuno di noi diventi piena e soddisfacente, è necessario perciò ritrovare l’altra risposta che non abbiamo adottato pochi attimi dopo aver emesso il primo vagito (la dolce metà, l’altra metà del cielo, l’anima gemella, etc., ect.) come, d’altro canto, ci aspettiamo che ciò succeda alla fine dei film d’amore che andiamo a vedere. Richard Gere che, nel finale, implora la splendida Julia Roberts.
E viviamo felici e contenti!

martedì 13 agosto 2013

Considerazioni su Olivia


Diamo ad Olivia, il personaggio femminile che ci siamo inventati per spiegare gli snodi narrativi di una storia (vedi i precedenti post), una ‘vita’ (lo faremo anche con Vincenzo). Useremo però la ‘vita‘ di Olivia per parlare del Secondo Atto (il più rognoso, la zona conflittuale) in modo da capire il problema centrale del protagonista, il suo fatal flow, a cosa egli resiste.
Si dice infatti che nel secondo atto c’è la resistenza del protagonista, ed è sempre piuttosto ostico comprenderlo dai libri e spesso nei corsi di sceneggiatura. Resiste a cosa? Proviamo a capirlo usando appunto Olivia.
Olivia a cosa potrebbe resistere? Si resiste per paura, in genere. Ho paura di un baratro e me ne tengo alla larga. Resisto al rischio di caderci dentro. Si pensa alla nostra fine, al tutto che finisce. Ma spesso la paura è anche la possibilità di una vita migliore vista con gli occhi di chi non ne ha mai avuta una. Ma che roba è? Oddio, e dopo che mi succede?
Considerazioni anche queste troppo razionali. In fondo dobbiamo raccontare emozioni non dimostrare teoremi.

Allora ricorriamo a un paradosso per inoculare nei nostri pensieri un’emozione intorno alla quale poter fare le nostre riflessioni.
Inquadriamo la paura di Olivia (dalla quale si difende resistendole), ipotizzando che ella s’immagini priva di una gamba. (Assurdo, lo so, ma a volte la nostra scarsa autostima ci priva di ben altro). In realtà Olivia le gambe ce le ha tutt’e due, va in giro, cammina, sale le scale, ma dentro di sé è convinta di avere soltanto una gamba. È la sua vita, quello che percepisce di sé stessa.
E mettiamo che Olivia abbia degli amici – Alberto, Francesco, Enrico, etc. – che, in virtù di questa sua mancanza, le offrano una carrozzella. Un gesto galante, persino generoso darle qualcosa sulla quale lei ‘possa mettere comoda’ l’idea che ha di sé stessa. Una grande risorsa per Olivia, soprattutto quando la sensazione di avere una gamba in meno, in certe giornate, la rende profondamente triste e sconsolata. Una carrozzella è un sollievo, un posto, da seduti, dove quella mancanza si azzera. Olivia, in quelle giornate strane, le va persino a cercare le carrozzelle! E quegli amici gliele porgono volentieri, magari per le cenette che Olivia offre loro in cambio. (Per gli amici niente di più piacevole, i manicaretti di Olivia sono noti). È un gioco delle parti: ciascuno prende e dà quello che può.

Abbiamo ipotizzato quale sia la paura di Olivia: sostanzialmente l’idea di poter avere due gambe. In pratica, la strenua difesa di quell'unica gamba che ha. Paradossale, no? Ora, dove sta la sua resistenza? Il Secondo Atto?
Per capirlo meglio inseriamo Vincenzo, il protagonista maschile della nostra ipotetica storia. Ad un certo punto Olivia conosce Vincenzo. Vincenzo ha, dal canto suo, una ferita emotiva che gli impedisce di avere una vita sociale e sentimentale serena, di cui però conosce l’esistenza. (Anche lui immagina di avere una gamba in meno, ma respinge l’idea delle carrozzelle).
Perciò la prima cosa che Vincenzo fa con Olivia, dato che se n’è innamorato, è cercare di mostrarle l’inganno delle carrozzelle. In fondo a cosa le servono? A trovare conforto in certi momenti, sì, ma anche a non camminare con le sue due gambe!

Ed ecco che si forma la resistenza del Secondo Atto dove siamo entrati. Olivia comincia a resistere ai tentativi di Vincenzo di sottrarle la carrozzella. Finisce che diventa una vera disputa tra loro, fonte di litigi e incomprensioni, ma Olivia non la molla. Perché per lei vorrebbe dire scoprire di avere due gambe, cioè rinunciare alla carrozzella, la rinuncia che le costa di più, per un consolidato modo di vivere, si potrebbe dire. Incredibile, no? Non riesce a fare a meno di uno strumento che certifica la sua menomazione frutto solo d’una suggestione. S’è costruita cioè un mondo che non è il suo mondo ma nel quale vive una vita…

Il rapporto con Vincenzo entra in crisi (mid point) nel momento in cui Olivia si rende conto che Vincenzo le sta offrendo la possibilità di camminare con tutt’e due le gambe. Olivia ne è sorpresa, un po’ spiazzata, non ha dimestichezza con quel genere di cose. Ci riflette, trova galante e generosa anche quell’offerta, la carrozzella delle carrozzelle! dal suo punto di vista, sicuramente l’opportunità di una vita migliore, meno ‘dipendente’, che però… mette troppo in discussione l’idea che ormai si è formata della propria gamba mancante, delle carrozzelle sulle quali è abituata a sedersi. Quali conseguenze comporterebbe il recupero (sempre e soltanto nella sua mente) dei due arti? Quali rivoluzioni? Certo un sogno, sì, ma…

Nella seconda parte del secondo atto, infatti, le carrozzelle non rappresentano più l'unico pensiero di Olivia, poiché la possibilità di non dipendervi più le permette di pensare ad altro. E se ci provassi? E se ci riuscissi? Il dilemma per Olivia diventano le sue stesse gambe che ora percepisce potenzialmente funzionanti. È una sfida, un’opportunità, perché no?
E ciò, paradossalmente, finisce per metterla in crisi. Perché immaginarsi con due gambe implicherebbe affrancarsi dagli stili di vita che fino a quel momento le hanno formato la personalità che crede di avere – cioè quella di una menomata – mettendo in discussione quell’“equilibrio” che s’era costruito, l’affrancamento da tutte le carrozzelle a cui dovrebbe dire addio. Ma come? Così all’improvviso? Che senso ha?

Nel frattempo Vincenzo le studia tutte per mostrarle il valore ingannevole di quelle carrozzelle, il diritto e il dovere che lei ha di abbandonarle, arrivando persino, per disperazione, ad accusarla di essere una donna senza una gamba! Possibile che non riesca a capire, si dice Vincenzo, neanche così? Davvero l’idea di avere una gamba in meno è così profondamente radicata in lei? Che neanche l’accusa di essere una ‘zoppa’ la scuote?

Olivia invece si chiude a riccio. Lo stimolo esterno è troppo forte, non sa gestirlo, non riesce a padroneggiarlo. Molto più facile con la sua carrozzella. E dice no, un no estremo. (Il punto di Morte). Un ‘no’ sordo, senza parole. Rifiuta il dialogo, il dialogo con quella vita perfettamente deambulante che le è stata prospettata da Vincenzo come condizione per continuare ad avere un rapporto, nell’idea che avere una sola gamba sia soltanto un’idea. Nient’altro.
Ma Olivia non può. Ormai la vita è andata com’è andata, stupido Vincenzo a non capirlo, a non approfittarne magari trasformandosi anche lui in una carrozzella. Se è così meglio abbandonarlo, è un chiaro segno che lui è diverso.

Ecco di cosa si parla, in questo caso simbolicamente, quando si parla di ‘resistenza’ del protagonista nel Secondo Atto. Si parla di CARROZZELLE. Tentativi disperati ed estremi, a volte davvero incomprensibili, di resistere ad una vita perfettamente deambulante.