sabato 8 novembre 2014

"Adoro il senso di colpa."


(ricevo da un lettore del blog a integrazione all’ultimo post e volentieri pubblico)

“A me piace molto il mio senso di colpa, mi ci trovo bene, anche perché lo conosco da molto tempo. La cosa che mi piace del mio senso di colpa è che lui conosce bene me e io conosco bene lui, quindi alla fine riusciamo sempre a trovare compromessi. La cosa più bella del senso di colpa e che lui non mi costringe ad essere qualcosa di diverso, mi accetta così come sono, soprattutto in questi casi mi è molto accanto.
Il senso di colpa a me piace anche per un’altra cosa, per esempio mi aiuta molto con gli altri perché mi permette di dedicarmi completamente a loro, alle loro necessità e ai loro bisogni. Infatti io cerco di aiutare tutti perché il mio senso di colpa per fortuna me lo permette. Io ho un ottimo senso di colpa, e ringrazio Dio tutti i giorni per avermelo dato.
Che vita sarebbe senza il senso di colpa? Trovarsi da soli, senza i rapporti che conosco, senza persone a cui dimostrare di essere utili. Insomma, una vita d’Inferno. Non pensare che a sé stessi e al proprio benessere infischiandosene altamente del senso di colpa, non avrebbe senso. Solo se hai un buon senso di colpa sei amato dagli altri, tutti ti apprezzano e ti stimano e dicono di te ‘ma guarda che brava persona’. 
Certe volte il mio senso di colpa mi permette di aderire completamente alle necessità magari di una persona cara, che sono quelle che più beneficiano del mio senso di colpa, grati e riconoscenti come si dimostrano. Loro non vorrebbero mai che cambiassi, e questo per me è un vero segno di amore. Perché adorano come me il mio senso di colpa, mi vogliono bene per questo, e io sono felice di questo loro amore. Meglio sopportare che prendersela con gli altri, dice il mio senso di colpa.
Pensare a sé stessi, alle proprie emozioni, ai propri hobbys magari, ed essere felici guardando un tramonto senza l’opportunità di pensare che quel sole non è soltanto tuo ma di tutti: non sarebbe egoistico?
Perciò, grazie a Dio, io il senso di colpa ce l’ho e me lo tengo stretto. E a chi mi dice che sbaglio, che la dovrei pensare diversamente, io rispondo: pensare a cosa?"

giovedì 6 novembre 2014

INDICAZIONI DI 'VIAGGIO' PER CHI SCRIVE


Una volta pensato il personaggio che si vuole raccontare, sarebbe opportuno concedersi un po’ di tempo per ragionarci sopra, magari una giornata, abbandonandosi a pure, per alcuni forse superflue, riflessioni.
Partiamo dall’idea che la scrittura di un copione o di un romanzo sia una destinazione che vogliamo raggiungere. Nulla di strano che prima ci s’informi su dove siano diretti. Una cartina geografica, qualche immagine su google, notizie da chi ci è già stato. Informazioni che non rappresentano in alcun modo l’emozione del viaggio ma che, a meno di non considerarsi avventurieri impenitenti, ci fanno pregustare il piacere della scoperta.

1) Consideriamo innanzitutto che ciascun personaggio a cui s’intende dar vita risponde ad un’unica necessità: ‘farcela’. Farcela a stare meglio, a realizzare ambizioni o sogni, a vivere in maniera soddisfacente e appagante, insomma, farcela ad essere felice. Quindi qualsiasi argomento trattato in un racconto, ambientato in questa o in quell’epoca, ha lo scopo finale di dare risposta al ‘non farcela’ iniziale del protagonista.

Esistono condizioni di partenza che limitano il protagonista dovute all’ambiente in cui vive, all’educazione che ha ricevuto, alla realtà culturale in cui si è sviluppato. Queste restrizioni psicologiche, educative o ambientali lo hanno forgiato rendendolo ciò che ora è, e da queste restrizioni deve liberarsi (le immagini di ‘Mission’ in cui Robert De Niro trascina dietro di sé il sacco – fardello di colpe - contenente le armi con cui fino a quel punto si è difeso, è emblematica).

Sostanzialmente cosa significa questo ‘farcela’ di cui parliamo? Qualche milione di anni fa per l’uomo primitivo il ‘farcela’ aveva un significato biologico nel bisogno di mangiare per riprodursi. Per mettere in atto questa stringente necessità, usava una clava con la quale sbrigava gran parte delle questioni con i suoi interlocutori. Poi un giorno, stanco o sprovvisto di un nodoso randello a portata di mano, decise di sostituire la pesante clava con un chiaro e sonoro ‘ma va’ al quel paese!’. Da quel giorno, più o meno, è nata la Cultura, definibile come ‘clavata argomentata’, rabbia e forza e determinazione espresse nel linguaggio verbale. Sviluppo di un linguaggio, evoluto nel corso del tempo, che ha conservato però le stesse finalità: arrivare a ottenere un vivere pieno e soddisfacente. Naturalmente oggi non si parla più di mammuth e di femmina in estro, piuttosto di realizzazione nel lavoro e di una compagna (o compagno) che ci completi.

Per l’individuo moderno, la parte principale della sopravvivenza è sempre rappresentata dal bisogno di esprimere le proprie emozioni, veicolo delle proprie necessità. Se questa capacità di espressione è bloccata o impedita da costrizioni psicologiche, ambientali o culturali, egli sviluppa un ‘problema’.

2) Bisogna perciò identificare innanzitutto la sfera di base a cui appartiene il problema del protagonista (nella vita reale un ‘problema’ è in genere il prodotto di un insieme di fattori, ma in un racconto bisogna necessariamente identificarne uno).

Dove si trova il problema del protagonista, ostacolo al suo ‘non-farcela’? Nella sfera affettiva?

Se si tratta di Storie d’Amore, metteremo in campo un personaggio che ha difficoltà a esprimere quelle emozioni congelate che all’inizio rappresentano il suo limite o fatal flaw. Per rappresentare quest’incapacità, non necessariamente si deve ricorrere a un orso che vive in totale solitudine. Un’ampia letteratura ci indica in dongiovanni e dark ladys un’uguale impossibilità. Il ‘realismo carnale’ di Bukowsky infatti, nei suoi personaggi aggrediti dalle passioni, pone un limite di consapevolezza, lo stesso della Madame Bovary di Flaubert, non diverso dal romanticismo quasi mistico di Romeo e Giulietta o da quello tormentato e disperato di Jane Eyre. Punti di partenza diversi, ma aventi lo stesso obiettivo: farcela a esprimere ciò che soddisfa nel profondo. (Con finali differenti che esprimono il messaggio dell’autore).

Oppure: il protagonista ha un problema di crescita?

Se si tratta di Storie di Morte (di crescita), l’incapacità a farcela da dare al protagonista è per certi aspetti più evidente. Qualcosa (dentro di sé) o qualcuno (fuori di lui) gli impedisce di avere una vita piena e soddisfacente. Anche qui c’è un’infinità di esempi, dal senso di colpa di Conrad Jarret in ‘Gente Comune’ di Redford, al conflitto tra Bene e Male di ‘Dottor Jekyll e Mister Hide’, al tormento del ‘Faust’ di Goethe. Ciascun protagonista in questo genere di opere deve affrontare il demone del male (cioè la scarsa consapevolezza di sé stesso) per crescere a una consapevolezza piena e soddisfacente.

A quale di questi due macro-problemi intendete dare risposta attraverso il vostro protagonista?

3)  Una volta che lo avete stabilito, definite il limite o fatal flaw del protagonista entrando nello specifico.
Se è vero che ogni racconto è la storia del problema del protagonista, puntiamo l’attenzione soltanto sul suo problema identificato in uno dei due suddetti macro-gruppi. I problemi fondamentali di un uomo, come detto, non sono cambiati dalla notte dei tempi, quindi la collocazione storica o geografica del racconto ha un valore secondario, ‘estetico’. Sappiamo che fino a Freud i racconti erano generalmente imperniati su ostacoli di natura sociale, quelli di natura psicologica si sono sviluppati successivamente quando, con innegabile genialità, il padre della psicanalisi ha messo l’uomo davanti a uno specchio dicendogli: ‘non sei soltanto quello che vedi o pensi di te stesso, sei molto di più’.

Oggi non ci sono più i Montecchi e i Capuleti a creare ostacolo all’amore, oggi i problemi sono quasi sempre di natura psicologica, individuale. Una confusione di elementi interni dovuti a uno sviluppo non idoneo a una vita piena e soddisfacente. 
Dunque come si caratterizza nello specifico il problema del vostro protagonista? Per entrare ancor più dentro al ‘problema’, occorre porsi altre domande.

Vive passioni sfrenate perché ha paura dell’amore? Vive chiuso in un totale controllo perché ha ricordi dolorosi legati alle sue ‘aperture’? Prende di petto il mondo perché teme di morirvi ‘sotto’? Compie scaltrezze perché non sa di avere delle qualità? O delle doti? Per le stesse ragioni trama contro altri? Tradisce perché ha paura di essere tradito? Uccide qualcuno perché qualcuno ha ucciso qualcosa dentro di lui? Ama tutti perché teme di amare sé stesso? Perché? Non lo merita abbastanza? E perché non lo merita abbastanza? Cosa gli è successo?

Naturalmente molte di queste domande sono sovrapponibili e possono indicare effetti di uno stesso problema, ma è necessario evidenziarne una precisa, corrispondente al problema del vostro protagonista se vogliamo che il ‘racconto’ segua un percorso ben identificabile.

Occorre cioè trovare il punto preciso in cui nel passato del protagonista si è verificato quel dato trauma. È spaventato dal mondo perché ha perduto il padre e non ha più una guida? Quel giorno la sua vita è cambiata. Da ragazzino allegro e spensierato, si è chiuso in un mutismo ostile e impenetrabile. Ora che ha trent’anni, o quaranta, che vita conduce? Conoscete qualcuno che abbia vissuto il dramma di un’esperienza simile? Una persona così ‘in difesa’, può avere una relazione sentimentale? Se ce l’ha, come sarà? ‘Lei’ come dovrebbe essere? Cosa succederà quando ‘lei’ gli dirà che le sue chiusure condizionano il loro rapporto? Lui come si comporterà? Cosa dovrà capire? E in che modo lo capirà?

Perdere un po’ di tempo su queste o altre domande non toglie nulla all’opera che si ha in mente di realizzare, ci costringe soltanto a trovare la maniera precisa con la quale il protagonista esprimerà questo suo disagio in una coerenza di pensieri e di azioni. (Una semplice regola prevede che un timido, posto di fronte a un conflitto, risponda sempre da timido, cioè senza mai alzare la voce).

4) Una volta trovata la domanda specifica che inquadra il ‘non farcela’ vostro protagonista, potrete spendere il tempo che vi rimane per circostanziare gli effetti del suo ‘non farcela’. Starebbe sicuramente meglio se riuscisse ad affrontare il suo problema, vivrebbe bene come desidera, da cosa ne è impedito?

È la parte più intrigante delle riflessioni intorno alla costruzione del vostro protagonista. Ci sono grandi autori come Hitchcock o Allen, o Dostoewskij, che avevano e hanno individuato ‘definitivamente’ il loro problema specifico, legato probabilmente alla loro percezione delle cose. Tutti i film di Hitchcock partono infatti da un unico assunto ‘psicologico’: il protagonista è accusato di qualcosa che non ha commesso, almeno non consapevolmente (senso di colpa); cioè tutti i film di Hitchcock sono basati sul senso di colpa del protagonista, rappresentato da un’accusa esterna o da una fissazione personale. Quelli di Woody Allen partono ugualmente da uno stesso, unico assunto: la scarsa autostima (sempre per un senso di colpa) del protagonista, rappresentata con buffi disagi e ironie. Dostoewskij invece attingeva il suo assunto di base nell’inadeguatezza (senso di colpa) dei suoi protagonisti rispetto a un contesto sociale o familiare brutale e vessatorio.
Si può stabilire insomma che tutto ciò che viene raccontato o rappresentato nelle arti è espressione di un unico tema fondamentale: il senso di colpa. Tutti noi agiamo o non agiamo in virtù del senso di colpa. I nostri personaggi compresi.
Poi questo problema specifico prende la forma di mille rivoli, e dobbiamo essere in grado di dare nome e cognome a quello che intendiamo percorrere.

Di base la nostra stessa esistenza è una ‘colpa’. Occupiamo uno spazio, esprimiamo delle emozioni spesso non condivise, sottraiamo cibo che spetterebbe ad altri se non ci fossimo. È una dimensione che ‘per natura’ ci vede ‘usurpatori’, invasori di una realtà che preesisteva alla nostra comparsa. Ed è proprio qui, nell’incapacità di ‘apparire’, di esistere, di farci spazio, consci dei nostri diritti e delle nostre necessità, che si annida il germe della colpa. Mi spetta il diritto di essere felice? Allora perché non me lo concedo? Lo devo elemosinare o pretendere?
Ovviamente non possiamo raccontare sempre la storia della cacciata dal paradiso terreste, che di colpa primigenia parla. Per questo tale ‘colpa’, nei racconti, viene caratterizzata da questo o da quell’evento traumatico che rappresenta il ‘problema’ del protagonista. Definire nello specifico di cosa si tratta, quale sia l’evento traumatico, serve a far vibrare della stessa corda chi legge un libro o chi assiste a un film, poiché lettore e spettatore vivono o hanno vissuto la stessa difficoltà. Il senso profondo che da quell’opera artistica ne ricaveranno, pur con problemi diversi, sarà lo stesso. ‘Farcela’.

È chiaro che se un protagonista vive passioni sfrenate è perché teme i sentimenti, ma anche di aprirsi a emozioni che lo hanno ferito, per questo non si fida, per questo fa le scarpe agli altri. Ma, come detto, queste caratterizzazioni sono in realtà quattro racconti diversi. È necessario trovare il trauma specifico, la domanda specifica che lo rappresenta, che rappresenta il suo particolare impedimento, e avrete ‘in pugno’ il vostro protagonista.

Se un protagonista vive passioni sfrenate, da piccolo avrà subìto, direttamente o indirettamente, lesioni o ferite riferibili ad un’affettività mancata. Non può, per esempio, essere orfano di genitori morti in un incidente stradale (anche se nella realtà non si potrebbe escludere). Sappiamo per esperienza che chi ha perduto i genitori da piccolo tende generalmente a chiudersi dentro di sé.
Se un protagonista si esprime violentemente, non possiamo rappresentarlo da piccolo colpito da una malattia invalidante. Magari invece avrà avuto un padre violento o sarà cresciuto in mezzo alla strada.
Se una protagonista femminile ha molte qualità e non riesce a esprimerle per esempio nel lavoro, probabilmente avrà avuto una madre che mortificava la sua femminilità, oppure un padre che la sottostimava (magari tutt’e due).

I genitori possono non essere più in campo (se il protagonista ha superato i venti-venticinque anni in genere non se ne parla più), ma ciò che il nostro protagonista è diventato li comprende incarnando il trauma da loro ereditato. Cioè una parte di sé ormai è diventata quel trauma nell’incapacità di essere felice. Quindi è con questo suo essere adesso ‘quel problema’ che deve fare i conti, e l’autore dovrà rificcarcelo catarticamente.

Ci sono decine e decine di film che espongono questo ‘teorema’ in maniera quasi meccanica: il poliziotto ha provocato inavvertitamente un danno a un bambino e si ritrova a fare il poliziotto in una scuola elementare; una donna ha perso un figlio e si ritrova a fare la baby-sitter; un criminale vuole abbandonare il crimine e viene rituffato in una rapina; una donna vuole imparare a conoscersi meglio e si ritrova con un uomo che vuole assolutamente sposarla.

Questi impedimenti e resistenze sono il coperchio che lo stesso protagonista si è creato nel tempo (inconsapevolmente) comprimendo le proprie ambizioni, la propria giusta aspirazione a una vita emotiva piena e soddisfacente. Nessuno è più “colpevole” di lui, dovrà scoprirlo.

Per concludere, possiamo considerare l’idea di ‘farcela’ il problema specifico del protagonista che incontra il proprio limite come opportunità, il ‘diritto a esistere’ come prezzo da pagare, che nessuno può desiderare quanto lui, a che altri non possono pagare al suo posto.

venerdì 5 settembre 2014

TITOLI DI CODA. QUANDO TANTO DI CODA NON SONO.


I Titoli Di Coda, soprattutto nelle commedie, vengono spesso usati per verbalizzare il 'messaggio del film'. Quelli di THE BIG KAHUNA sono davvero speciali. Il soggetto e la sceneggiatura sono di
Roger Rueff, e il film è tratto da una sua commedia teatrale. Qui la mano dell'autore è pesante, e tanto leggera da affascinare.

venerdì 22 agosto 2014

MOLLY RITROVA SAM... UNA NUOVA VITA



Indimenticabile "Ghost", il cui successo di pubblico fu clamoroso e inatteso. Molly si riunisce con l'anima dell'amato scomparso Sam che poi scompare nella luce dell'aldilà. Un NUOVA VITA per entrambi. Quello che più conta non è visibile, in quel "ti amo" che da vivo Sam non era riuscito a dirle.  Lo sceneggiatore Bruce Joel Rubin vinse l'Oscar per la Migliore Sceneggiatura Originale nel 1991. La sua opera migliore, escludendo "My Live - Questa mia vita" con Michael Keaton e Nicole Kidman.

lunedì 11 agosto 2014

TRE ATTI DA SOGNO


Ciò che al tempo Aristotele codificò nei tre atti, rappresenta tutt’oggi un validissimo parametro narrativo di riferimento.
Si può pensare che Aristotele non abbia codificato i tre atti attraverso un particolare studio sulla drammaturgia, ma abbia tratto i suoi parametri narrativi dalla rappresentazione dei sogni sui quali compose alcuni trattati.
Già al tempo commediografi e drammaturghi erano in grado di rappresentare l’animo umano nelle più intime e profonde sfumature, fini conoscitori di dinamiche relazionali individuate attraverso l’esperienza e l’osservazione. Su tutti il dramma di Edipo di cui, molti secoli dopo, Freud si servì per approfondire alcune delle sue teorie.
Drammaturghi e commediografi greci, e forse ancor prima egizi e assiri, avevano già compreso perfettamente come funzionavano ‘le cose tra gli uomini’, le forze che li legavano. Si può risalire all’Epopea di Gilgamesh (5000 anni fa circa), per capire quanto gli antichi fossero avanti in questo genere di conoscenza.
Poi Aristotele mise nero su bianco. Scrisse il primo libro sulla scrittura, la Poetica. Un libro in cui affronta il problema della scrittura, dando coordinate, indicando direzioni, definendo stili all’interno dei tre atti.
Aristotele quindi si “limitò” a codificare la forma narrativa espressa dai sogni degli esseri umani. Paure e aspirazioni rappresentate in una ‘striscia’ di immagini oniriche. Sogni che, vale tutt’oggi per tutti noi, si rappresentano invariabilmente in quella striscia costituita da tre blocchi, cioè da ‘tre atti’: situazione data, esposizione del problema, risoluzione. (Da notare che a quei tempi i sogni erano gli stessi di oggi: inseguimenti e paura di non riuscire a volare, visioni di sangue, timore della nudità all’interno di un gruppo, etc.).
Una struttura narrativa ispirata quindi dalla biologia.
La nostra mente infatti, nel sonno, accende una specie di faro sul nostro inconscio. E, come la lampada di Diogene, si mette in cerca della ferita da aggiustare. Un Pronto Intervento Notturno in cui la mente cerca di curare come può ferite antiche non del tutto rimarginate mostrate dall’inconscio (rappresentate nella veglia da paure e confusione), che eventi del quotidiamo hanno riaperto. L’inconscio insomma illustra il problema alla mente servendosi di immagini (animali, oggetti, persone conosciute o sconosciute) prese a prestito della realtà per rendersi leggibile, per rendere leggibile la biologia di cui è costituito. L’inconscio cerca di trasformare il dolore in immagini affinché la mente possa comprenderne il senso ed elaborarlo.
È questo il sogno: il racconto di una sensazione dolorosa che l’inconscio trasforma in immagini per la mente. E non è questo un film? O un romanzo? Il racconto di un dolore per immagini?
L’uomo sogna in tre atti, o meglio, il dolore dell’uomo si esprime nei sogni in tre atti. Come se qualcuno dicesse: tu patisci questo (I atto), cerchi di aggiustartelo (II atto), e alla fine ecco cosa ci ricavi (III atto).
Questo processo riguarda anche qualsiasi nostra esperienza nella veglia: desideriamo fare una cosa, ci proviamo e ne cogliamo gli esiti. Ho fame, cerco il cibo, lo mangio. Il livello dell’esito finale di ogni azione stabilisce il grado della nostra capacità di padroneggiare la realtà. Cosiccome l’esito finale di ogni sogno stabilisce il livello della nostra capacità di affrontare il problema.
Per questo la “regola” di Aristotele regge all’usura del tempo, perché desunta dalla nostra biologia. Non possono esserci quattro atti o cinque, neanche due, anche se spesso queste scansioni narrative vengono liberamente interpretate. Di base, di fondo, si tratta sempre dello stesso problema affrontato in tre momenti.
Ecco perciò nello specifico cosa avviene nei tre atti:

I ATTO.
Il primo atto è costituito dalla situazione data, che contiene il problema del protagonista espresso dal timore di affrontarlo, e la minacciosa prospettiva legata a questo stallo. Quindi il primo atto racchiude anch’esso al suo interno tre sotto-atti.
Nello schema narrativo questi tre sotto-atti sono definiti in:
- Mondo Ordinario (la situazione data);
- Chiamata e Rifiuto dell’Avventura, ovvero la paura che si manifesta e l’opposizione ad essa (da notare che in molti manuali sulla scrittura, Chiamata e Rifiuto vengono trattati nello stesso capitolo);
- Prospettiva di Morte, ovvero la dolorosa condizione di vita a cui il protagonista non può sfuggire.
Il primo atto cioè ci prepara al racconto, delinea il conflitto. Questa premessa, chiamata concept, rappresenta l’argomento di cui tratta il racconto. Il concept ha due versioni: high concept, che considera una prevalenza dei fatti, del plot; e low concept che appoggia la narrazione sulle problematiche dei personaggi.

II ATTO.
Anche il Secondo Atto è costituito da tre sotto-atti: la verifica della condizione minacciosa, l’incontro con la condizione minacciosa, la “morte” a causa della condizione minacciosa.
Nello schema narrativo:
- Avvicinamento alla Prova Suprema (verifica della condizione minacciosa);
- Prova Suprema (incontro con la condizione minacciosa);
- Punto di Morte (“morte” a causa della condizione minacciosa).
(Nel II atto si ricorre a snodi narrativi aggiuntivi per articolare in maniera più efficace e fluida il racconto, i cui nomi variano da manuale a manuale. Nel nostro caso si tratta di Amici e Nemici (nella prima parte del secondo atto) e della Fine dello Stato di Grazia (subito dopo la metà del secondo atto).
Il secondo atto quindi affronta il problema del protagonista nella sua necessità di risolverlo. Il protagonista affronta le conseguenze della falsa soluzione del primo atto. Attraverso ciò prepariamo il terreno al terzo atto dove egli riconoscerà il proprio errore.

III ATTO.
Nel terzo atto, ugualmente, vi sono tre sotto-atti: la spinta alla reazione, la condizione minacciosa affrontata, la condizione di nuova vita.
Nello schema narrativo:
- Rimotivazione (la spinta alla reazione)
- Climax (la condizione minacciosa affrontata)
- Nuova Vita (la nuova condizione di vita)
Caratteristica del terzo atto è di risolvere i conflitti del protagonista e dare risposte alle sue domande; è una fase chiusa che non rimanda ad alcun altro sviluppo.

Riassumendo:

I atto:
Mondo Ordinario
Chiamata all’Avventura/Rifiuto dell’Avventura
Prospettiva di Morte

II atto:
(Amici, Nemici)
Avvicinamento alla Prova Suprema
Prova Suprema
(Fine dello Stato di Grazia)
Punto di Morte

III atto:
Rimotivazione
Climax
Nuova Vita

Va inoltre osservato che i tre atti si possono considerare approfondimenti successivi. Il dolore del Primo Atto viene riproposto in maniera più specifica nel Secondo Atto, e nel Terzo Atto vi è lo stesso dolore del Secondo ma definito in maniera ancor più profonda, e definitiva.
La Chiamata all’Avventura è l’espressione più superficiale della Prova Suprema, e la Prova Suprema lo è del Punto di Morte.
Questi tre snodi narrativi sono importanti poiché costituiscono i tre piloni su cui regge il dolore del protagonista. Nella Chiamata il protagonista impatta il dolore, nella Prova Suprema ci si confronta direttamente, nel Punto di Morte ci “muore”. Una sorta cioè di avvicinamento progressivo del protagonista al problema: prima lo intravede, poi ci si scontra, infine ci ‘muore’ per risorgervi.
Qualsiasi cosa ci riguardi nella vita quotidiana assolve alla regola del ‘tre atti’. Un inizio, una fase di mezzo (la più lunga), una fine. Ancor di più si potrebbe dire riguardo la nostra vita, con una nascita, una vita, e una morte. E che i sogni in fondo riflettono l’excursus di quest'universale parabola umana. 

martedì 5 agosto 2014

L'ELISIR DI NUOVA VITA


Ogni storia racconta una morte. Morte della paura/problema (fatal flaw), dei recinti da essa creati all’interno dei quali il protagonista ha cercato di sopravvivere. Finché quella paura non l’ha definitivamente sommerso nel Punto di Morte. Nel Climax però il protagonista ha reagito in maniera vitale, ed è arrivato alla Nuova Vita. È arrivato cioè a capire che vivere significa essenzialmente non finire preda delle proprie paure (caratterizzate in gran parte da emozioni inespresse) trovando ad esse una risposta positiva. Una consapevolezza che rappresenta, nella Nuova Vita, l’ultimo capitolo del viaggio del protagonista. Quindi del nostro viaggio sugli snodi della struttura narrativa.

Nella struttura narrativa, la Nuova Vita rappresenta l’applicazione pratica di ciò che il protagonista ha acquisito emotivamente alla fine della sua strada, l’elisir, il dono dopo una dura lotta interiore. Il premio. Vivere significa avere la possibilità di godere del bene delle cose, delle persone e di sé stessi come unici valori ammissibili, senza condizionamenti psicologici o di una morale collettiva. Nella capacità di accogliere e restituire emozioni positive sta l’alloro conquistato dall’eroe.
La scena di Nuova Vita di “Qualcosa è cambiato” in cui Melvin Udall (Jack Nicholson) invita Carol Connely (Helen Hunt) ad entrare all’alba in una panetteria con l’unico scopo di gustarvi del pane fresco, indica molto in questo senso. Gli scontri di Melvin Udall, i conflitti, le angosce, i baratri… infine soltanto la dolcezza di un gesto, di un desiderio semplice, quasi banale, da condividere con qualcuno che si è scoperto di amare. È questo l’elisir di lunga vita. Nessuna pozione rivitalizzante, né bacchetta magica, né ricetta di felicità: la ricompensa è vivere senza paura ciò che si sente.

I film e i romanzi a questo punto terminano con una breve scena o con un paragrafo in cui viene rappresentata questa conquista interiore. Il protagonista ora semplicemente vive, senza più un passato che lo confonde e un futuro che lo condiziona. Egli, come detto, non ha guadagnato un ragionamento più appropriato, né acquisito una teoria ben formulata, né s’è indirizzato verso abitudini più salutari, ha trovato una completezza emotiva spurgata dalle paure iniziali che la inibivano. E ha ritrovato ciò che era.

Una completezza emotiva rappresentata dalla riunione dell’Anima con l’Animus, nelle Storie d’Amore; del trionfo della Vita sulla Morte nelle Storie di Morte.

L’Animus e l’Anima si sono integrati nel profondo (dove prima vivevano separati e guardinghi)! Le due parti della mela socratica si sono riunite, lo yin e lo yang si sono incontrati… sollevandoci dalla paura della separazione, rendendoci finalmente individui.

Una ‘riunione’ che emotivamente nel protagonista produce un ‘distacco empatico’. Eventi e persone ora non lo travolgono più. Capace di esprimere le proprie emozioni come acqua d’un torrente che prende la forma degli ostacoli che incontra e li supera, il protagonista ora ha la possibilità di affrontare qualsiasi circostanza senza necessità di aggredire né di celarsi, capace di esprimere la totalità di ciò che prova in quel preciso istante, immune da qualsiasi invasione emotiva.
La montagna delle paure che incuteva soggezione e lo costringeva alla fatica, ai sacrifici, ai conflitti, ora non appare più grande d’un granello di sabbia. E sorride con benevolenza verso tutto ciò che stato. Che è servito per giungere in un altro luogo: dentro di sé.

Ulisse torna a casa dopo lungo, drammatico peregrinare a riprendersi ciò che gli apparteneva già da prima di partire. Ha dovuto misurare le proprie forze e scoprire i propri limiti per tornare a riappropriarsi di ciò che era già suo, non più confuso né spaventato.
“Comunque, tutto quello che continuavo a dire a tutti era ‘voglio tornare a casa’”. Sono le parole di Alice nel Mago di Oz, rivolte a zia Gemma alla fine della rocambolesca avventura.
Il ritorno è ad un luogo di sé stessi, nella riscoperta di una pace e di una chiarezza interiori che il protagonista possedeva temendole, libero finalmente da oscure figure interiori (antagonisti, nel racconto) che gli offuscavano la vista. Le ha affrontate, quelle oscurità, e le ha vinte integrandole nel Climax, ora sono parte di lui come vissuto, come un’esperienza fatta che non lo condiziona più ma lo arricchisce.
(Sembrano davvero assurdi tanta fatica e tanto dolore in un cammino tortuoso e ripido nel tentativo di arrivare ad ottenere ciò che già si possedeva all’inizio del percorso. Ma il senso dell’esistenza pare proprio questo).

Nelle Storie d’Amore, tutto questo pare risolversi con un ‘ti amo’ declinato in varie maniere.
In maniera magistrale è raccontato nel film “Ghost”. Una storia d’amore che quindi narra la riunione tra Animus e Anima. E tanto questa necessità di riunione appartiene a tutti noi che non ci importa se il protagonista è morto, se la scena in cui questa riunione avviene sia del tutto irreale. Un deceduto, Sam Wheat (Patrick Swayze), che amoreggia con una persona viva e vegeta, Molly Gensen (Demi Moore). Ma desideriamo talmente sentirlo esprimere su quest’’incapacità’, che sappiamo quanto lo facesse vivere in maniera emotivamente parziale – a causa di quel ‘ti amo’ che in vita non era stato capace di dire - che non rivolgiamo alcuna attenzione “all’irrealtà” di quella scena. Il ‘miracolo’ che si compie davanti ai nostri occhi ci fa apparire il resto assolutamente reale.
È singolare infatti quanto poca attenzione facciamo ad eventi a volte davvero improbabili, raccontati in film o romanzi per esempio di fantascienza; l’eroe si vaporizza inalando uno spray per poi riapparire teletrasportato a migliaia di chilometri per dire alla sua amata ‘ti amo’: eppure noi lo troviamo perfettamente credibile.
Il “film” che vediamo infatti, come già detto, è sempre lo stesso, cioè il nostro, e sulla pellicola o sulla carta viene rappresentato ciò che abbiamo bisogno di vedere. Le storie raccontabili, anche questo già detto nel post sui Proto-Soggetti, sono quattro, cinque al massimo. Una riguarda la nostra incapacità di amare, le altre due l’incapacità di crescere e di sopravvivere, con un paio di variazioni sul tema. Rivediamo infatti da secoli sempre le stesse quattro/cinque storie declinate in migliaia di modi diversi nelle varie epoche e secondo varie usanze o culture, eppure trovandole ogni volta emozionanti. Perché abbiamo bisogno di vederle. Di trovarvi quel senso dell’esistenza che molto spesso ci sfugge tra le dita. Emozioni esterne che inducono emozioni dentro di noi, come una chiave che riattiva un motore spento. ‘Accensioni’ di cui è difficile essere sazi finché, proprio come in un film, nella vita non riusciamo ad ‘accenderci da soli’. La nostra Nuova Vita.

Nelle Storie di Morte, questa ‘presa di coscienza’ viene rappresentata in maniera più “semplice”, dopo il Climax dov’è avvenuta la feroce lotta del protagonista contro l’antagonista, del Bene contro il Male.
Nella scena di chiusura di Nuova Vita - nelle Storie di Morte - ritroviamo il nostro eroe ammaccato ma vittorioso. C’è in genere un’ambulanza pronta a portarlo via dopo che ha salvato un gattino, o la fidanzata, o la città, o il mondo intero. La scena con l’ambulanza è un classico. L’eroe ferito sanguinante e il cagnetto, o la fidanzata, o il sindaco o l’intera umanità che gli fa una carezza mentre in barella l’intrepido scompare dentro l’ambulanza. La Macchina da Presa si solleva verso l’alto fino a comprendere tutta la strada inondata di lampeggianti della polizia mentre scorrono i Titoli di Coda.
The end.
Per il protagonista delle Storie di Morte, l’”elisir” della Nuova Vita è infatti dato “semplicemente” dalla capacità sviluppata di non finire morto, dalla consapevolezza di avercela fatta. Nel bacio o nella medaglia che ne riceve in premio.

La Vita ha lottato contro la Morte, le ha prese di santa ragione, ma alla fine ha vinto. La Vita ha sopraffatto la Morte, in uno slancio feroce, violento, arcaico, essenziale. Vitale.
Memorabile la scena finale di  ”Platoon” scritto e diretto da Oliver Stone quando – sui Titoli di Coda - i marines tornando dall’atroce battaglia cantano una canzone di Walt Disney mentre la voce fuori campo di Chris Taylor (Charlie Sheen) ricorda che ciò che ha vissuto in quella terribile esperienza non aveva senso, tranne per il fatto che fosse sopravvissuto.

Nelle Storie di Morte vi sono tuttavia Nuove Vite molto meno muscolari, in genere legate al senso di colpa (nemico interno), aspetto che praticamente caratterizza quasi tutta la cinematografia di Hitchcock.
Uno splendido esempio è anche in “Gente Comune” scritto da Alvin Sargent, quando alla fine il giovane Conrad va a scusarsi con la sua ragazza per essersi comportato come uno stupido. Quando lei gli chiede di entrare a fare colazione lui accetta sentendo di avere fame. Dopo che Conrad per tutto il film ha combattuto contro il senso di colpa dovuto alla morte del fratello, il semplice accettare quella colazione dà la netta sensazione che sia tornato alla vita, molto più di quanto sarebbe stato se le avesse spiegato a parole il suo miglioramento.

È infatti così che viene rappresentata la Nuova Vita. Un segnale emotivo chiaro ed efficace, non c’è bisogno d’altro. Naturalmente realizzarlo al cinema è più facile poiché basta un’immagine o una battuta ben contestualizzate per far scaturire un’emozione profonda. Nei romanzi questo momento è meno diretto, le parole rubano alle emozioni.

L’elisir della Nuova Vita è sapere che non c’è un domani, che tutto ciò che di buono possiamo ottenere dalla vita è qui ed adesso, che i nostri errori non sono stati altro che tasselli di un puzzle che alla fine si è composto nel disegno di una vita emotivamente piena ed appagante, dandoci la certezza che non esiste una morale più alta di quella rappresentata dalla nostra gioia di vivere, e che la gioia di vivere che si riceve da una qualsiasi relazione giustifica il fatto per cui dovremmo alimentarla.

Se finora abbiamo parlato di zone di racconto (snodi narrativi) che altro non sono che la successione di crescenti emozioni che portano dal pensare ‘sto male’ a dire ‘ora sto bene’, è evidente che dalla Nuova Vita in poi non vi sia più molto da raccontare. Nella pienezza e nella gioia del vivere non vi è alcun dramma da narrare, quindi nessuna opportunità per comprendere e aggiustare i nostri drammi.

Interessante allora è ricordare che noi stessi percorriamo la strada dell’eroe molte volte al giorno tentando di vincere ciò che ci affossa. Cento volte al giorno tentiamo lo stesso viaggio, eppure, a volte, non basta una vita per riuscire a completarlo. Educazione, “carattere” o condizioni sociali spesso ce lo impediscono.
Penso che anche questi post siano stati un tentativo di farcela, prendendo a pretesto i tecnicismi narrativi. Ma se avranno suscitato una qualche riflessione, o uno stimolo di qualsiasi genere, non sarà stato, come spero, un tentativo vano.
Comunque il viaggio del protagonista è finito. Nel congedarci usiamo la formula KISS (Keep It Simple, Stupid), “Falla semplice, stupido”, suggerita agli sceneggiatori a fine racconto da C. Vogler.