martedì 16 luglio 2013

Perché mi piace il lieto fine

Quello che ci dicono i tre atti aristotelici, più o meno, è che nel primo atto c'è la presentazione del problema del protagonista; nel secondo, il protagonista si confronta con il suo problema fino a giungere ad un "fallimento" dovuto alla 'limitatezza' delle convinzioni e delle conoscenze fino a quel momento adottate; nel terzo, il protagonista adotta l'unica soluzione possibile per risolvere il suo problema, cioè quella di esprimersi emotivamente in maniera aperta e franca, e senza paura.

La curiosa osservazione che si può fare a riguardo è che Aristotele non si è inventato dal niente una "struttura" efficace dentro la quale inserire gli elementi del racconto, ma ha desunto i tre atti dalla nostra struttura biologica interna. Cioè, se ci pensate bene, i sogni vengono espressi dal nostro inconscio con la stessa "struttura": una situazione data in cui ci troviamo, il conflitto che questa situazione genera, e il finale che può essere negativo o positivo, a seconda del nostro livello di padronanza del problema.

Quindi, come dire, neanche Aristotele s'è inventato niente. Prima di Freud è andato in maniera deduttiva a "fotografare" i modi attraverso i quali le nostre strutture interne si rappresentano nei sogni dandoci il livello dei nostri problemi e delle nostre capacità di soluzione.

Per questo preferisco il lieto fine in qualsiasi genere di racconto, non per sottrarmi alla durezza e all'inesplicabilità della vita, ma per indicare una modalità che molto spesso lo spettatore, rispetto alle proprie prospettive di vita, cerca senza trovare. Un po' consolatorio, se volete, ma perché no?

Questi sono i cosiddetti "finali all'americana" dove il Bene alla fine vince sempre. A differenza dei "finali europei" dove la vita viene spesso rappresentata come una difficoltà di cui non si può che prendere atto.
Meno consolatorio, e più 'realistico'.