giovedì 13 febbraio 2014

Mancanza (II parte). La scrittura "a metà".


Continuiamo a parlare di mancanza. (Per chi lo avesse perso qui il primo post sull'argomento)  
“Amore è amore di quello di cui si avverte la mancanza” dice quindi Socrate ispirato da Diotima nel Simposio.
Cioè: dov’è finita la nostra dolce metà?
Quanto peniamo a cercarla…
Ricerca che nei secoli ha cambiato di pochissimo il tiro.
Nell’amor cortese medievale, per esempio, anche se con note sensuali, il poeta vagheggiava l’amata considerando il contatto fisico una degradazione. Quale miglior “espediente” per ottenere quella mancanza?
Platone non la pensava tanto diversamente dai trovatori medievali (o forse viceversa). Era lì per lui, in una dimensione spirituale, che viveva l’amore, nella mancanza di un contatto fisico.
Oppure i poeti del Decadentismo – ormai traditi dalla ragione – che ripiegavano sulla trasgressione e sulla maledizione incitando al rifiuto della morale borghese. Ma anche qui con un vuoto esistenziale profondo.
Per arrivare a un moderno Jane Eyre di Charlotte Bronte. Un amore disperso in mille traversie che soltanto alla fine sembra concludersi. Inseguimento a un completamento che non viene mai raggiunto pienamente.
Pure nel realismo sporco di Bukowsky, in cui la carnalità dei rapporti è l’aspetto saliente, il vuoto che si apre sotto di esso è quello di una riunione mancata. L’illusione che l’amore arrivi attraverso il sesso e la scoperta dell’angoscia da questo derivante.
 (Il sesso, in una storia di incompletezza e completezza dei sentimenti, è il punto d’arrivo delle due metà che si ritrovano, ma può essere anche considerato punto di partenza di una ricerca di identificazione del protagonista che condurrà comunque e sempre allo stesso climax: i due amanti che finalmente si riconoscono come persone mosse dalle emozioni e non dai loro corpi).

Quindi separare, dividere, allontanare per creare mancanza.
E incendiare l’amore.
A proposito di mancanza, possiamo individuare due livelli narrativamente diversi:

1)  Il primo dovuto a fattori esterni, sociali o culturali. Per esempio, quasi tutti i romanzi fino all’Ottocento rappresentano un mondo classico che si rifaceva a realtà essenzialmente caratterizzate da categorie sociali o da livelli culturali diversi. L’incompletezza e la completezza sentimentale dei due amanti, in questo caso, non erano messe in discussione, erano quasi sempre due metà già riunite all’inizio. Ma, come la spada di Zues che separa l’uomo dalla donna, a creare la mancanza subentravano fattori esterni.
Un esempio emblematico, in questo senso, è la vicenda di Romeo e Giulietta dove a produrre l’allontanamento sono le famiglie dei due celebri amanti. I giovani si amano in maniera completa, non è questo il loro problema. Ma le loro famiglie li allontanano, creano la mancanza.
Al cinema, tra molti altri, c’è un significativo “Indovina chi viene a cena” dove l’allontanamento è reso dal padre, Spencer Tracy che, con le sue idee appartenemente progressiste, pone ostacolo alla riunione dei due innamorati (Sidney Poitier e Katharine Hougton) che non hanno alcun impedimento interno: si amano ma devo lottare contro il pregiudizio.

2)    Il secondo livello, più ‘moderno’, è dovuto a fattori interni relativi alla
psicologia del protagonista. È la caratteristica dei racconti da Freud in poi. Freud mette per la prima volta l’uomo davanti allo specchio dicendogli “c’è qualcos’altro dentro di te oltre a quello che vedi riflesso.”

Nei racconti d’amore ‘moderni’, il protagonista, all’inizio della storia, ha un danno che deve sanare. Il cosiddetto fatal flaw che costringe il protagonista a “lottare” contro sé stesso per poter raggiungere l’oggetto del suo desiderio. Non ci sono impedimenti esterni (tranne come rinforzo della sua “lotta”).
I due amanti vorrebbero amarsi ma non ci riescono. Perché intelligente una e emotivo l’altro (o viceversa).

Il mancare, l'essere privo di qualche cosa, il fatto che qualche cosa manchi del tutto o non ve ne sia in misura sufficiente è una sensazione che proviamo, spesso non solo legata ai sentimenti di amore verso un'altra persona. Sentiamo anche un'inadempienza rispetto al nostro dovere di essere felici, l'inosservanza di un sentimento che ci riconosciamo e che deve rappresentare la nostra prima vera sfida.
            

martedì 4 febbraio 2014

Mancanza (I parte). Il "problema" dello scrittore.


La "mancanza" è il motore di ogni storia. Conoscere la mancanza del protagonista è il primo problema che chi scrive dovrebbe porsi. Perché soffre il nostro eroe? Che cosa gli manca? Gli manca l'amore, la fiducia in sé stesso, una vita serena, una speranza?
Queste mancanze, e non solo queste, sono legate all'incompletezza dei sentimenti che tormenta il protagonista, che lo spinge a lottare, a soffrire, a combattere. La fine della storia vedrà il nostro eroe recuperare o incorporare quella parte mancante attraverso un salvifico slancio vitale.
Perciò cominciamo col parlare di quest'incompletezza e completezza di sentimenti.
Per semplificare, diciamo che nasciamo tondi o quadrati, o, per dirla con Jung, introversi o estroversi, oppure intelligenti o emotivi, come dico io, e che la forma che prendiamo, il carattere cioè che assumiamo crescendo, è una risposta - parziale quindi problematica - a ciò che impattiamo appena nati. Dal modo cioè in cui percepiamo questo impatto rispondiamo diventando, e specializzandoci col tempo, intelligenti o emotivi. 
In una definizione piuttosto generica, possiamo dire che l’intelligente è colui che si ritrova costretto a comprendere molto bene gli altri lasciando così poco spazio alla comprensione di sé stesso, mentre l’emotivo è talmente concentrato sulle proprie emozioni da concedere poco alla comprensione degli altri. Dopodiché, in base a questi presupposti, strutturiamo la nostra personalità, formiamo cioè un carattere in base a ciò che ci caratterizza, per ritrovarci poi, da adulti, a scontrarci con l’altra parte, cioè la risposta mancante, che non abbiamo adottato. In questo “scontro-incontro” stanno tutti i nostri drammi. Dunque le storie cosa sono? Sostanzialmente la ricerca di quella risposta che all'inizio del nostro sviluppo non abbiamo adottato essendoci “adattati” all’altra.
Come molti sapranno, tutte le cellule del nostro corpo sono ‘complete’ tranne quelle sessuali che trovano la loro unione attraverso l’accoppiamento. Il gamete maschile è lo Spermatozoo, il gamete femminile è l’Uovo. Ogni cellula sessuale singola è detta aploide in quanto contiene solamente META’ del cromosoma, mentre l'unione tra le due cellule, maschile e femminile, forma la cellula diploiede o zigote.
META’.
Dualità biologica.
Oltre l’attrazione biologica che proviamo verso l’altro sesso, ci indirizziamo verso un partner o una partner caratterizzati in maniera opposta rispetto a noi. Per affrontare e misurarci con la nostra mancanza e integrarla. 
Oltre all’imperativo biologico, esiste perciò un imperativo psicologico: spermetto emotivo e ovuletto intelligente (questo esempio è il più consueto) attratti come calamite la cui separazione crea mancanzaE come ci fa soffrire questo imperativo! 
Cosa ci “accoppia” perciò al di là dell’attrazione biologica? Perché quel tipo o quella tipa, e non l’altro o l’altra? Se siamo intelligenti negli anni cercheremo la completezza in un partner emotivo. E viceversa. Tutto così semplice? No. Ci sono le pene dell’amore.
Quando poi la parte che siamo stati costretti a negarci la ritroviamo da adulti in noi stessi (veicolata da una mentore o un mentore, come avviene nei film) allora diventiamo completi e possiamo permetterci un amore totale e pieno. Perciò non è di questo che possiamo parlare nelle nostre storie. Dovremmo sennò parlare di ciò che avviene tra due amanti dopo la fine del film, quando questa riunione è avvenuta. Il film, appunto, non è questo. Il film sta prima del the end, cioè nella ‘pena d’amore’, nella tensione di un partner verso l’altro, nel tentativo di riavvicinare le due parti. Quindi il come vivranno i nostri protagonisti dopo il the end non è oggetto di narrazione. A loro auguriamo una splendida esistenza. Dal the end in poi si può parlare di sentimenti pienamente realizzati. Prima parliamo di mancanza.
La mancanza è il nostro film.
“Amore è amore di quello di cui si avverte la mancanza” afferma Socrate ispirato da Diotima nel Simposio di Platone.
Non credo esista definizione più pertinente al nostro problema.
Mancanza.
Presupposto cioè alla riunione tra intelligente e emotivo, tra l'estroverso e l'introverso junghiani, tra prolific e devouring blakeiani, tra yin e yang cinesi, tra cielo e terra indiani: questo è lo spazio dove vive il nostro racconto. Dove, in effetti, quel sentimento totale e pieno che si estende dal the end in poi non c’è. 
Mancanza.
Che per lunghi tratti dà “romanticamente” sostanza e senso alla nostra esistenza.
Mancanza. Il nostro batticuore… 
Il significato di Amore infatti, in alcune versioni della mitologia greca, è generato proprio dalla dualità Mancanza/Espediente. Amore (Eros) era figlio di Penia (povertà/mancanza) e di Poros (espediente), circuito da lei quand’era ubriaco.
Bel quadrettino amoroso, no?
Platone invece nel Simposio parla di un uomo e una donna, uniti attraverso il petto e la pancia, che Zeus divide con un colpo di spada per renderli più deboli e meno tracotanti al suo cospetto. Il dolore della separazione: quanto duramente lo subiamo!
Jung parla invece della Persona e della sua Ombra: esiste uno spunto migliore per indicare ciò che ci manca? Qualcosa che non vediamo, un’Ombra appunto, che addirittura ci spaventa e che alla fine faremo di tutto per abbracciare? 
Dualità. Sempre dualità.
Il finale del film (climax) sta nel ritrovare l’integrazione di queste due parti. La realizzazione di questa unione produce un moto emotivo profondo che ci fa superare la sensazione di morte (o perdita) legata a questa mancanza.
Che è anche la nostra.
E arriva il the end.
                                                                                                                              (Prima parte)