giovedì 19 dicembre 2013

I QUATTRO ERRORI PIU' COMUNI QUANDO SI SCRIVE UNA STORIA


Avete appena finito di scrivere la vostra storia. Avete sputato anima e sangue per arrivare alla parola fine. Siete orgogliosi di voi. Ma qualche dubbio vi assale. Bene, non esiste un vero scrittore senza dubbi. Qualcosa di nuovo da imparare c’è sempre. Ogni tanto qualcuno mi chiede quali siano gli errori più comuni di struttura quando si scrive una storia o una sceneggiatura. Me ne vengono in mente quattro, forse i più frequenti.

1) Non definire il fatal flow del protagonista all’inizio della storia. Uno degli errori più diffusi, forse il più grave.
L’autore stabilisce che il protagonista ha un problema e indica esclusivamente la sua soluzione esterna.
All’inizio di Miss Little Sunshine, Richard Hoover (Greg Kinnear) tiene una conferenza sui cosiddetti nove passi per raggiungere il successo (necessità esterna). Il proposito sembra del tutto legittimo e le sue argomentazioni paiono all’altezza.
Il vero problema viene tuttavia indicato attraverso un abile controcampo grazie al quale lo spettatore scopre che la sala è pressoché deserta. Richard ha valide ambizioni ma c’è qualcosa che nella sua comunicazione non funziona! È questo il fatal flow, l’effetto cioè sulla sua vita di questo difetto di comunicazione: nessuno lo ascolta, non viene ascoltato.
L’autore potrebbe essere infatti spinto a descrivere lo scopo del protagonista semplicemente illustrandolo, mostrando il suo obbiettivo da raggiungere (vendere, in questo caso, un libro che lo renderà felice e realizzato), omettendo però il vuoto che tale mancata vendita comporta per lui.
Ne Il Mago di Oz, Dorothy all’inizio è chiamata a ravvivare la vita dei due anziani zii, e questo indica ugualmente (invece che in maniera sottrattiva, in maniera addizionale), il problema della ragazzina, distratta dal rallegrare gli altri e non impegnata a rallegrare sé stessa. Un bel problema, no?
L’autore all’inizio deve sforzarsi di rappresentare ciò che non c’è nella vita del protagonista, o ciò che la vita che conduce gli sottrae di vitale. Vedere un atleta che salta gli ostacoli è appassionante, lo è di più se conosciamo cosa rischia se non lo fa.

2) Dimenticare di sottolineare l’esigenza emotiva del protagonista nella prospettiva di morte, alla fine del Primo Atto.
Questo succede quando l’autore “dimentica” di soddisfare una domanda: cosa succederebbe al protagonista se non affrontasse il conflitto del secondo atto?
L’autore spesso scaraventa il protagonista nel secondo atto per ovvie esigenze di racconto senza stabilire la sua posta emotiva in palio, cioè l’urgenza che l’autore stesso deve rendere plausibile affinché il protagonista getti il cuore oltre l’ostacolo.
C’è un bellissimo esempio in Rocky, quando Sylvester Stallone, dopo essere stato sfidato dal campione di turno ed aver mostrato di volersi sottrare a quella sfida, torna a casa e trova dentro l’ampolla il suo pesciolino rosso morto. Cioè: qualcosa di vitale muore se non accetto di mettermi in gioco.
È importantissimo infatti suggerire cosa sarebbe la vita del protagonista se evitasse di entrare in contatto con il problema segnalato nel fatal flow. Farlo permette all’autore di caratterizzare e amplificare le resistenze del protagonista nel secondo atto, di dare risalto a tutti i suoi sforzi creando una forte empatìa da parte del lettore o dello spettatore.

3) Sottrarre il protagonista alla riflessione sul proprio problema emotivo, dopo l’incontro con la propria ombra.
Il protagonista, a metà storia circa, incontra la propria ombra. In genere da questo incontro ne esce con le ossa rotte, e ciò gli genera una nuova, parziale, consapevolezza, costituita essenzialmente dalla scoperta della propria debolezza. Il protagonista cioè percepisce che non basta più agire forti delle proprie convinzioni, ma che esiste un altro dato, interiore, con cui deve fare i conti. Si tratta di una parziale adesione ai propri limiti, la scoperta di essi, che da quel momento in poi costituiranno il vero ostacolo da superare.
Spesso l’autore bypassa questo momento raddoppiando al protagonista le prove da superare. E la storia finisce così per essere una sterile corsa ad ostacoli al termine della quale il protagonista ce la fa o meno.
Nei racconti di genere, per esempio, questo momento è evidenziato dalla ricerca che il protagonista interrompe all’esterno di sé per rivolgerla all’interno di sé. Nei thriller l’investigatore, a metà film, ha infatti un’ulteriore sollecitazione perché diventa lui stesso l’obbiettivo del cattivo di turno. Cioè deve imparare a sopravvivergli.
Nelle commedie sentimentali, il senso non cambia. Un’esempio emblematico è reso nel film Qualcosa è cambiato. Melvin Udall (Jack Nicholson), a metà racconto, si ritrova al ristorante con Carol Connelly (Helen Hunt). Melvin è finalmente riuscito a portarla a cena fuori ma, quando si trova a dover esprimere i propri sentimenti, finisce per essere molto indelicato. Carol lo pianta in asso, e lui così impatta la necessità di mettere in gioco la propria debolezza, caratterizzata, in ogni storia d’amore, dalla paura del protagonista di mostrare apertamente i propri sentimenti.
Per ovviare a questo errore bisogna fare in modo che tale mancanza del protagonista, a questo punto, sia chiara. Il protagonista ha perso una battaglia ma deve percepire che gli esiti della guerra dipendono solo ed esclusivamente dall’affrontare le proprie paure. Dal capire cioè che all’amore non si resiste, si cede.

4) Non mandare il protagonista al climax, alla fine del terzo atto.
Il più classico degli errori, soprattutto nei gialli e nei racconti d’azione dove può accadere che l’autore mandi qualcun altro allo scontro finale al posto del protagonista.
Questo succede quando la spinta del protagonista è data soltanto dai fatti narrati dalla storia e non dalle necessità psicologiche che lo spingono ad agire.
Una storia di vendetta, per esempio, non è data soltanto dal fatto che a una certa persona è stato ucciso un familiare e che perciò vuole trovare i colpevoli e ucciderli; è data anche, e soprattutto, dal conflitto che il protagonista vive nel compiere questa azione, un tormento che magari lo spingerà, nel climax, a ricavare da quell’atto scellerato una lezione umana più importante.
Senza un conflitto interiore tutto si riduce a se uccidere o non uccidere il cattivo. L’autore, in questi casi, è spinto a ritenere che, dato che il suo protagonista non può essere cattivo, l’ònere dello scontro finale può essere delegato a qualcun altro, cosa che, apparentemente, salva il protagonista dal mostrarsi a sua volta cattivo.
Invece deve essere il protagonista ad ‘andare fino in fondo’, deve affrontare lui il problema, cioè la propria paura. Il climax rappresenta la sintesi di tutto ciò che il protagonista ha appreso fino a quel momento, il logos in cui egli agisce diversamente rispetto al passato. Sollevarlo da questa prova, anche se dura, è una specie di amputazione narrativa. Perché se il nostro protagonista non si sarà sottratto al proprio conflitto interiore, a questo punto non vedrà l’ora di affrontarlo.

Come avrete notato, gli errori più comuni in una struttura narrativa riguardano la costruzione del protagonista. Dobbiamo mettere tutta la nostra attenzione su quanto sia importante crare un buon personaggio per costruire una buona storia.

3 commenti:

  1. Risposte
    1. Il confronto è sempre molto importante per chi scrive. Spero che continuerai a seguire il blog. Al prossimo commento.

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  2. Molto interessante. Devo dire che credo, senza saperlo, di aver seguito abbastanza correttamente, tutti i consigli letti. Mi sono attenuta agli esempi sopra descritti, d'istinto. Erano domande che mi ponevo, spontaneamente. Grazie.

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