Avete appena
finito di scrivere la vostra storia. Avete sputato anima e sangue per arrivare
alla parola fine. Siete orgogliosi di
voi. Ma qualche dubbio vi assale. Bene, non esiste un vero scrittore senza
dubbi. Qualcosa di nuovo da imparare c’è sempre. Ogni tanto qualcuno mi chiede
quali siano gli errori più comuni di struttura quando si scrive una storia o
una sceneggiatura. Me ne vengono in mente quattro, forse i più frequenti.
1) Non definire
il fatal flow del protagonista
all’inizio della storia. Uno degli errori più diffusi, forse il più grave.
L’autore
stabilisce che il protagonista ha un problema
e indica esclusivamente la sua soluzione
esterna.
All’inizio di Miss Little Sunshine, Richard Hoover
(Greg Kinnear) tiene una conferenza sui cosiddetti nove passi per raggiungere il successo (necessità esterna). Il
proposito sembra del tutto legittimo e le sue argomentazioni paiono
all’altezza.
Il vero problema viene tuttavia indicato
attraverso un abile controcampo grazie al quale lo spettatore scopre che la
sala è pressoché deserta. Richard ha valide ambizioni ma c’è qualcosa che nella
sua comunicazione non funziona! È questo il fatal
flow, l’effetto cioè sulla sua vita di questo difetto di comunicazione: nessuno lo ascolta, non viene ascoltato.
L’autore potrebbe
essere infatti spinto a descrivere lo scopo del protagonista semplicemente
illustrandolo, mostrando il suo obbiettivo da raggiungere (vendere, in questo
caso, un libro che lo renderà felice e realizzato), omettendo però il vuoto che tale mancata vendita comporta
per lui.
Ne Il Mago di Oz, Dorothy all’inizio è
chiamata a ravvivare la vita dei due anziani zii, e questo indica ugualmente
(invece che in maniera sottrattiva, in maniera addizionale), il problema della ragazzina, distratta dal
rallegrare gli altri e non impegnata a rallegrare sé stessa. Un bel problema,
no?
L’autore all’inizio
deve sforzarsi di rappresentare ciò che
non c’è nella vita del protagonista, o ciò che la vita che conduce gli
sottrae di vitale. Vedere un atleta che salta gli ostacoli è appassionante, lo
è di più se conosciamo cosa rischia se non lo fa.
2) Dimenticare
di sottolineare l’esigenza emotiva del protagonista nella prospettiva di morte, alla fine del Primo Atto.
Questo succede
quando l’autore “dimentica” di soddisfare una domanda: cosa succederebbe al
protagonista se non affrontasse il conflitto del secondo atto?
L’autore spesso scaraventa
il protagonista nel secondo atto per ovvie esigenze di racconto senza stabilire
la sua posta emotiva in palio, cioè l’urgenza che l’autore stesso deve rendere
plausibile affinché il protagonista getti il cuore oltre l’ostacolo.
C’è un
bellissimo esempio in Rocky, quando Sylvester Stallone, dopo essere stato
sfidato dal campione di turno ed aver mostrato di volersi sottrare a quella
sfida, torna a casa e trova dentro l’ampolla il suo pesciolino rosso morto.
Cioè: qualcosa di vitale muore se non accetto di mettermi in gioco.
È
importantissimo infatti suggerire cosa sarebbe la vita del protagonista se
evitasse di entrare in contatto con il problema
segnalato nel fatal flow. Farlo
permette all’autore di caratterizzare e amplificare le resistenze del
protagonista nel secondo atto, di dare risalto a tutti i suoi sforzi creando
una forte empatìa da parte del lettore o dello spettatore.
3) Sottrarre il
protagonista alla riflessione sul
proprio problema emotivo, dopo l’incontro con la propria ombra.
Il protagonista,
a metà storia circa, incontra la propria ombra.
In genere da questo incontro ne esce con le ossa rotte, e ciò gli genera una
nuova, parziale, consapevolezza, costituita essenzialmente dalla scoperta della
propria debolezza. Il protagonista
cioè percepisce che non basta più agire forti delle proprie convinzioni, ma che
esiste un altro dato, interiore, con cui deve fare i conti. Si tratta di una
parziale adesione ai propri limiti, la scoperta di essi, che da quel momento in
poi costituiranno il vero ostacolo da superare.
Spesso l’autore
bypassa questo momento raddoppiando al protagonista le prove da superare. E la
storia finisce così per essere una sterile corsa ad ostacoli al termine della
quale il protagonista ce la fa o meno.
Nei racconti di genere, per esempio, questo momento è evidenziato dalla ricerca che
il protagonista interrompe all’esterno di
sé per rivolgerla all’interno di sé.
Nei thriller l’investigatore, a metà film, ha infatti un’ulteriore
sollecitazione perché diventa lui stesso l’obbiettivo del cattivo di turno. Cioè deve imparare a sopravvivergli.
Nelle commedie
sentimentali, il senso non cambia. Un’esempio emblematico è reso nel film Qualcosa è cambiato. Melvin Udall (Jack
Nicholson), a metà racconto, si ritrova al ristorante con Carol Connelly (Helen
Hunt). Melvin è finalmente riuscito a portarla a cena fuori ma, quando si trova
a dover esprimere i propri sentimenti, finisce per essere molto indelicato. Carol
lo pianta in asso, e lui così impatta la necessità di mettere in gioco la
propria debolezza, caratterizzata, in
ogni storia d’amore, dalla paura del protagonista di mostrare apertamente i
propri sentimenti.
Per ovviare a
questo errore bisogna fare in modo che tale mancanza
del protagonista, a questo punto, sia chiara. Il protagonista ha perso una
battaglia ma deve percepire che gli esiti della guerra dipendono solo ed
esclusivamente dall’affrontare le proprie paure. Dal capire cioè che all’amore
non si resiste, si cede.
4) Non mandare
il protagonista al climax, alla fine
del terzo atto.
Il più classico
degli errori, soprattutto nei gialli e nei racconti d’azione dove può accadere che
l’autore mandi qualcun altro allo scontro finale al posto del protagonista.
Questo succede
quando la spinta del protagonista è data soltanto dai fatti narrati dalla
storia e non dalle necessità psicologiche che lo spingono ad agire.
Una storia di
vendetta, per esempio, non è data soltanto dal fatto che a una certa persona è
stato ucciso un familiare e che perciò vuole trovare i colpevoli e ucciderli; è
data anche, e soprattutto, dal conflitto che il protagonista vive nel compiere
questa azione, un tormento che magari lo spingerà, nel climax, a ricavare da
quell’atto scellerato una lezione umana più importante.
Senza un conflitto
interiore tutto si riduce a se uccidere o non uccidere il cattivo. L’autore, in questi casi, è spinto a ritenere che, dato
che il suo protagonista non può essere cattivo, l’ònere dello scontro finale
può essere delegato a qualcun altro, cosa che, apparentemente, salva il
protagonista dal mostrarsi a sua volta cattivo.
Invece deve
essere il protagonista ad ‘andare fino in fondo’, deve affrontare lui il problema, cioè la propria paura. Il
climax rappresenta la sintesi di tutto ciò che il protagonista ha appreso fino
a quel momento, il logos in cui egli agisce diversamente rispetto al passato.
Sollevarlo da questa prova, anche se dura, è una specie di amputazione
narrativa. Perché se il nostro protagonista non si sarà sottratto al proprio
conflitto interiore, a questo punto non vedrà l’ora di affrontarlo.
Come avrete notato,
gli errori più comuni in una struttura narrativa riguardano la costruzione del
protagonista. Dobbiamo mettere tutta la nostra attenzione su quanto sia
importante crare un buon personaggio per costruire una buona storia.