Immagino di no.
Dopo
anni di sceneggiature e di copioni teatrali, di collaborazioni con illustri
autori, e di corsi di sceneggiatura ai primordi della mia passione, mi sono
accorto che alla fine tutte le storie parlavano sempre delle stesse cose. Storie diverse, con sfondi diversi, con
personaggi diversi, ma che ruotavano sempre intorno agli stessi
“eventi”.
Così
ho provato a cercare una comunanza tra grandi gruppi di film, e sono emersi sei
Proto-Soggetti - come li ho chiamati - sui quali si sono narrativamente
costruiti e si costruiscono un’infinità di variazioni sul tema. Sei
storie portanti, di base, che inglobano tutte le storie finora raccontate.
Ma a che cosa serve sapere che tutte le storie finora narrate possano essere raggruppate in sei grandi racconti, al di là del fatto che ciò rappresenti una bella curiosità? Serve, soprattutto a chi scrive, a conoscere il senso di ciò che racconta, che anima nel profondo ciò che narra, a individuare cioè l'essenza di qualcosa a cui dà un inizio e una fine.
Ma a che cosa serve sapere che tutte le storie finora narrate possano essere raggruppate in sei grandi racconti, al di là del fatto che ciò rappresenti una bella curiosità? Serve, soprattutto a chi scrive, a conoscere il senso di ciò che racconta, che anima nel profondo ciò che narra, a individuare cioè l'essenza di qualcosa a cui dà un inizio e una fine.
Questa
sensazione mi si è definita leggendo “L’epopea di Gilgamesh”, il libro più
antico di cui si abbia riscontro, la cui redazione risale a circa
duemilacinquecento anni avanti cristo.
Di
cosa poteva scrivere un collega di quasi cinquemila anni fa?, mi sono chiesto.
Di cosa aveva urgenza di parlare circondato da bestie feroci e da guerrieri
sanguinari, magari nel gelo della tundra, impegnato in un’aspra lotta per la
sopravvivenza, tra il sibilo d’una freccia o quello d’un colpo d’ascia? Visti
i tempi, prima di leggerlo, ho immaginato trattasse storie di guerre e di
soprusi. Conquiste e assedi. Memorabili battaglie o aspre lotte per il potere o
bottini di guerra contesi. Niente
di tutto questo.
“L’epopea
di Gilgamesh” è praticamente la storia di “Un uomo da marciapiede”, il
bellissimo film scritto da Valdo Salt con John Voigt e Dustin Hoffman. La
storia, in sostanza, di un uomo con una bassa consapevolezza di sé che cresce
incontrando un mentore che si sacrifica per lui.
Stupefacente,
no? La stessa storia a distanza di quasi cinquemila anni.
Chi
ha copiato chi? Valdo Salt era a conoscenza della vicenda di Gilgamesh?
Possibile. Oppure no. Ma il punto non è questo. Il punto è che Valdo Salt non
era diverso da quell’autore sumero di cinquemila anni fa, né il sumero lo era
da noi. Cioè tremila, o cinquemila, o ventimila anni fa l’uomo si grattava la
testa più o meno per gli stessi motivi per cui lo fa oggi.
Perciò la domanda successiva è stata: che cosa ci rende così uguali nei millenni da aver bisogno di raccontare (e di ascoltare) sempre le stesse storie, nel corso del tempo declinate in maniera diversa in base alla cultura e ai costumi del momento?
Perciò la domanda successiva è stata: che cosa ci rende così uguali nei millenni da aver bisogno di raccontare (e di ascoltare) sempre le stesse storie, nel corso del tempo declinate in maniera diversa in base alla cultura e ai costumi del momento?
Un’urgenza
umana vitale, credo. La necessità di capire il significato del nostro agire, di
trovare un senso alla nostra esistenza, alle difficoltà che certe volte ce la
rendono invivibile. Soprattutto quando queste aspirazioni finiscono mescolate ai
mille problemi quotidiani e noi stessi ne perdiamo la visione.
Ecco
allora la meraviglia delle storie. La possibilità di vederci rappresentati da
un protagonista che alla fine trova una risposta alle sue aspirazioni ottenendo
una vita felice. Lui ce l’ha fatta! E
usciamo dal cinema belli contenti come
fossimo lui.
Ma quali sono queste aspirazioni che ci rendono così uguali dalla notte dei tempi? Che ci uniscono in un ristrettissimo numero di storie? Aspirazioni, credo, che esprimono la necessità di completarci, di trovare una sintesi a una dualità (Vita/Morte e Amore/Non Amore) che è l'aspetto comune di tutte le storie - la nostra compresa - dal momento in cui cominciamo a raccontarle.
Una dualità che ci è connaturata, che caratterizza aspetti biologici profondi, legati appunto alla Sopravvivenza e alla Procreazione. Sopravvivenza che, in senso narrativo, viene intesa come lotta tra Bene e Male, raccontata in quelle che chiameremo Storie di Morte. E Procreazione narrativamente intesa come contrapposizione tra incompletezza e completezza dei sentimenti, raccontata nelle Storie d'Amore.
Perché non esiste nessun altro tipo di racconto. Dopotutto perché dovrebbe, visto che sussistiamo solo ed esclusivamente per queste due funzioni primarie? E nelle forme in cui queste dualità si ricompongono stanno appunto i nostri proto-soggetti.
Ma quali sono queste aspirazioni che ci rendono così uguali dalla notte dei tempi? Che ci uniscono in un ristrettissimo numero di storie? Aspirazioni, credo, che esprimono la necessità di completarci, di trovare una sintesi a una dualità (Vita/Morte e Amore/Non Amore) che è l'aspetto comune di tutte le storie - la nostra compresa - dal momento in cui cominciamo a raccontarle.
Una dualità che ci è connaturata, che caratterizza aspetti biologici profondi, legati appunto alla Sopravvivenza e alla Procreazione. Sopravvivenza che, in senso narrativo, viene intesa come lotta tra Bene e Male, raccontata in quelle che chiameremo Storie di Morte. E Procreazione narrativamente intesa come contrapposizione tra incompletezza e completezza dei sentimenti, raccontata nelle Storie d'Amore.
Perché non esiste nessun altro tipo di racconto. Dopotutto perché dovrebbe, visto che sussistiamo solo ed esclusivamente per queste due funzioni primarie? E nelle forme in cui queste dualità si ricompongono stanno appunto i nostri proto-soggetti.
(Introduzione dell'ebook “Proto-soggetti - I segreti della scrittura”, prossimamente online)