sabato 8 novembre 2014

"Adoro il senso di colpa."


(ricevo da un lettore del blog a integrazione all’ultimo post e volentieri pubblico)

“A me piace molto il mio senso di colpa, mi ci trovo bene, anche perché lo conosco da molto tempo. La cosa che mi piace del mio senso di colpa è che lui conosce bene me e io conosco bene lui, quindi alla fine riusciamo sempre a trovare compromessi. La cosa più bella del senso di colpa e che lui non mi costringe ad essere qualcosa di diverso, mi accetta così come sono, soprattutto in questi casi mi è molto accanto.
Il senso di colpa a me piace anche per un’altra cosa, per esempio mi aiuta molto con gli altri perché mi permette di dedicarmi completamente a loro, alle loro necessità e ai loro bisogni. Infatti io cerco di aiutare tutti perché il mio senso di colpa per fortuna me lo permette. Io ho un ottimo senso di colpa, e ringrazio Dio tutti i giorni per avermelo dato.
Che vita sarebbe senza il senso di colpa? Trovarsi da soli, senza i rapporti che conosco, senza persone a cui dimostrare di essere utili. Insomma, una vita d’Inferno. Non pensare che a sé stessi e al proprio benessere infischiandosene altamente del senso di colpa, non avrebbe senso. Solo se hai un buon senso di colpa sei amato dagli altri, tutti ti apprezzano e ti stimano e dicono di te ‘ma guarda che brava persona’. 
Certe volte il mio senso di colpa mi permette di aderire completamente alle necessità magari di una persona cara, che sono quelle che più beneficiano del mio senso di colpa, grati e riconoscenti come si dimostrano. Loro non vorrebbero mai che cambiassi, e questo per me è un vero segno di amore. Perché adorano come me il mio senso di colpa, mi vogliono bene per questo, e io sono felice di questo loro amore. Meglio sopportare che prendersela con gli altri, dice il mio senso di colpa.
Pensare a sé stessi, alle proprie emozioni, ai propri hobbys magari, ed essere felici guardando un tramonto senza l’opportunità di pensare che quel sole non è soltanto tuo ma di tutti: non sarebbe egoistico?
Perciò, grazie a Dio, io il senso di colpa ce l’ho e me lo tengo stretto. E a chi mi dice che sbaglio, che la dovrei pensare diversamente, io rispondo: pensare a cosa?"

giovedì 6 novembre 2014

INDICAZIONI DI 'VIAGGIO' PER CHI SCRIVE


Una volta pensato il personaggio che si vuole raccontare, sarebbe opportuno concedersi un po’ di tempo per ragionarci sopra, magari una giornata, abbandonandosi a pure, per alcuni forse superflue, riflessioni.
Partiamo dall’idea che la scrittura di un copione o di un romanzo sia una destinazione che vogliamo raggiungere. Nulla di strano che prima ci s’informi su dove siano diretti. Una cartina geografica, qualche immagine su google, notizie da chi ci è già stato. Informazioni che non rappresentano in alcun modo l’emozione del viaggio ma che, a meno di non considerarsi avventurieri impenitenti, ci fanno pregustare il piacere della scoperta.

1) Consideriamo innanzitutto che ciascun personaggio a cui s’intende dar vita risponde ad un’unica necessità: ‘farcela’. Farcela a stare meglio, a realizzare ambizioni o sogni, a vivere in maniera soddisfacente e appagante, insomma, farcela ad essere felice. Quindi qualsiasi argomento trattato in un racconto, ambientato in questa o in quell’epoca, ha lo scopo finale di dare risposta al ‘non farcela’ iniziale del protagonista.

Esistono condizioni di partenza che limitano il protagonista dovute all’ambiente in cui vive, all’educazione che ha ricevuto, alla realtà culturale in cui si è sviluppato. Queste restrizioni psicologiche, educative o ambientali lo hanno forgiato rendendolo ciò che ora è, e da queste restrizioni deve liberarsi (le immagini di ‘Mission’ in cui Robert De Niro trascina dietro di sé il sacco – fardello di colpe - contenente le armi con cui fino a quel punto si è difeso, è emblematica).

Sostanzialmente cosa significa questo ‘farcela’ di cui parliamo? Qualche milione di anni fa per l’uomo primitivo il ‘farcela’ aveva un significato biologico nel bisogno di mangiare per riprodursi. Per mettere in atto questa stringente necessità, usava una clava con la quale sbrigava gran parte delle questioni con i suoi interlocutori. Poi un giorno, stanco o sprovvisto di un nodoso randello a portata di mano, decise di sostituire la pesante clava con un chiaro e sonoro ‘ma va’ al quel paese!’. Da quel giorno, più o meno, è nata la Cultura, definibile come ‘clavata argomentata’, rabbia e forza e determinazione espresse nel linguaggio verbale. Sviluppo di un linguaggio, evoluto nel corso del tempo, che ha conservato però le stesse finalità: arrivare a ottenere un vivere pieno e soddisfacente. Naturalmente oggi non si parla più di mammuth e di femmina in estro, piuttosto di realizzazione nel lavoro e di una compagna (o compagno) che ci completi.

Per l’individuo moderno, la parte principale della sopravvivenza è sempre rappresentata dal bisogno di esprimere le proprie emozioni, veicolo delle proprie necessità. Se questa capacità di espressione è bloccata o impedita da costrizioni psicologiche, ambientali o culturali, egli sviluppa un ‘problema’.

2) Bisogna perciò identificare innanzitutto la sfera di base a cui appartiene il problema del protagonista (nella vita reale un ‘problema’ è in genere il prodotto di un insieme di fattori, ma in un racconto bisogna necessariamente identificarne uno).

Dove si trova il problema del protagonista, ostacolo al suo ‘non-farcela’? Nella sfera affettiva?

Se si tratta di Storie d’Amore, metteremo in campo un personaggio che ha difficoltà a esprimere quelle emozioni congelate che all’inizio rappresentano il suo limite o fatal flaw. Per rappresentare quest’incapacità, non necessariamente si deve ricorrere a un orso che vive in totale solitudine. Un’ampia letteratura ci indica in dongiovanni e dark ladys un’uguale impossibilità. Il ‘realismo carnale’ di Bukowsky infatti, nei suoi personaggi aggrediti dalle passioni, pone un limite di consapevolezza, lo stesso della Madame Bovary di Flaubert, non diverso dal romanticismo quasi mistico di Romeo e Giulietta o da quello tormentato e disperato di Jane Eyre. Punti di partenza diversi, ma aventi lo stesso obiettivo: farcela a esprimere ciò che soddisfa nel profondo. (Con finali differenti che esprimono il messaggio dell’autore).

Oppure: il protagonista ha un problema di crescita?

Se si tratta di Storie di Morte (di crescita), l’incapacità a farcela da dare al protagonista è per certi aspetti più evidente. Qualcosa (dentro di sé) o qualcuno (fuori di lui) gli impedisce di avere una vita piena e soddisfacente. Anche qui c’è un’infinità di esempi, dal senso di colpa di Conrad Jarret in ‘Gente Comune’ di Redford, al conflitto tra Bene e Male di ‘Dottor Jekyll e Mister Hide’, al tormento del ‘Faust’ di Goethe. Ciascun protagonista in questo genere di opere deve affrontare il demone del male (cioè la scarsa consapevolezza di sé stesso) per crescere a una consapevolezza piena e soddisfacente.

A quale di questi due macro-problemi intendete dare risposta attraverso il vostro protagonista?

3)  Una volta che lo avete stabilito, definite il limite o fatal flaw del protagonista entrando nello specifico.
Se è vero che ogni racconto è la storia del problema del protagonista, puntiamo l’attenzione soltanto sul suo problema identificato in uno dei due suddetti macro-gruppi. I problemi fondamentali di un uomo, come detto, non sono cambiati dalla notte dei tempi, quindi la collocazione storica o geografica del racconto ha un valore secondario, ‘estetico’. Sappiamo che fino a Freud i racconti erano generalmente imperniati su ostacoli di natura sociale, quelli di natura psicologica si sono sviluppati successivamente quando, con innegabile genialità, il padre della psicanalisi ha messo l’uomo davanti a uno specchio dicendogli: ‘non sei soltanto quello che vedi o pensi di te stesso, sei molto di più’.

Oggi non ci sono più i Montecchi e i Capuleti a creare ostacolo all’amore, oggi i problemi sono quasi sempre di natura psicologica, individuale. Una confusione di elementi interni dovuti a uno sviluppo non idoneo a una vita piena e soddisfacente. 
Dunque come si caratterizza nello specifico il problema del vostro protagonista? Per entrare ancor più dentro al ‘problema’, occorre porsi altre domande.

Vive passioni sfrenate perché ha paura dell’amore? Vive chiuso in un totale controllo perché ha ricordi dolorosi legati alle sue ‘aperture’? Prende di petto il mondo perché teme di morirvi ‘sotto’? Compie scaltrezze perché non sa di avere delle qualità? O delle doti? Per le stesse ragioni trama contro altri? Tradisce perché ha paura di essere tradito? Uccide qualcuno perché qualcuno ha ucciso qualcosa dentro di lui? Ama tutti perché teme di amare sé stesso? Perché? Non lo merita abbastanza? E perché non lo merita abbastanza? Cosa gli è successo?

Naturalmente molte di queste domande sono sovrapponibili e possono indicare effetti di uno stesso problema, ma è necessario evidenziarne una precisa, corrispondente al problema del vostro protagonista se vogliamo che il ‘racconto’ segua un percorso ben identificabile.

Occorre cioè trovare il punto preciso in cui nel passato del protagonista si è verificato quel dato trauma. È spaventato dal mondo perché ha perduto il padre e non ha più una guida? Quel giorno la sua vita è cambiata. Da ragazzino allegro e spensierato, si è chiuso in un mutismo ostile e impenetrabile. Ora che ha trent’anni, o quaranta, che vita conduce? Conoscete qualcuno che abbia vissuto il dramma di un’esperienza simile? Una persona così ‘in difesa’, può avere una relazione sentimentale? Se ce l’ha, come sarà? ‘Lei’ come dovrebbe essere? Cosa succederà quando ‘lei’ gli dirà che le sue chiusure condizionano il loro rapporto? Lui come si comporterà? Cosa dovrà capire? E in che modo lo capirà?

Perdere un po’ di tempo su queste o altre domande non toglie nulla all’opera che si ha in mente di realizzare, ci costringe soltanto a trovare la maniera precisa con la quale il protagonista esprimerà questo suo disagio in una coerenza di pensieri e di azioni. (Una semplice regola prevede che un timido, posto di fronte a un conflitto, risponda sempre da timido, cioè senza mai alzare la voce).

4) Una volta trovata la domanda specifica che inquadra il ‘non farcela’ vostro protagonista, potrete spendere il tempo che vi rimane per circostanziare gli effetti del suo ‘non farcela’. Starebbe sicuramente meglio se riuscisse ad affrontare il suo problema, vivrebbe bene come desidera, da cosa ne è impedito?

È la parte più intrigante delle riflessioni intorno alla costruzione del vostro protagonista. Ci sono grandi autori come Hitchcock o Allen, o Dostoewskij, che avevano e hanno individuato ‘definitivamente’ il loro problema specifico, legato probabilmente alla loro percezione delle cose. Tutti i film di Hitchcock partono infatti da un unico assunto ‘psicologico’: il protagonista è accusato di qualcosa che non ha commesso, almeno non consapevolmente (senso di colpa); cioè tutti i film di Hitchcock sono basati sul senso di colpa del protagonista, rappresentato da un’accusa esterna o da una fissazione personale. Quelli di Woody Allen partono ugualmente da uno stesso, unico assunto: la scarsa autostima (sempre per un senso di colpa) del protagonista, rappresentata con buffi disagi e ironie. Dostoewskij invece attingeva il suo assunto di base nell’inadeguatezza (senso di colpa) dei suoi protagonisti rispetto a un contesto sociale o familiare brutale e vessatorio.
Si può stabilire insomma che tutto ciò che viene raccontato o rappresentato nelle arti è espressione di un unico tema fondamentale: il senso di colpa. Tutti noi agiamo o non agiamo in virtù del senso di colpa. I nostri personaggi compresi.
Poi questo problema specifico prende la forma di mille rivoli, e dobbiamo essere in grado di dare nome e cognome a quello che intendiamo percorrere.

Di base la nostra stessa esistenza è una ‘colpa’. Occupiamo uno spazio, esprimiamo delle emozioni spesso non condivise, sottraiamo cibo che spetterebbe ad altri se non ci fossimo. È una dimensione che ‘per natura’ ci vede ‘usurpatori’, invasori di una realtà che preesisteva alla nostra comparsa. Ed è proprio qui, nell’incapacità di ‘apparire’, di esistere, di farci spazio, consci dei nostri diritti e delle nostre necessità, che si annida il germe della colpa. Mi spetta il diritto di essere felice? Allora perché non me lo concedo? Lo devo elemosinare o pretendere?
Ovviamente non possiamo raccontare sempre la storia della cacciata dal paradiso terreste, che di colpa primigenia parla. Per questo tale ‘colpa’, nei racconti, viene caratterizzata da questo o da quell’evento traumatico che rappresenta il ‘problema’ del protagonista. Definire nello specifico di cosa si tratta, quale sia l’evento traumatico, serve a far vibrare della stessa corda chi legge un libro o chi assiste a un film, poiché lettore e spettatore vivono o hanno vissuto la stessa difficoltà. Il senso profondo che da quell’opera artistica ne ricaveranno, pur con problemi diversi, sarà lo stesso. ‘Farcela’.

È chiaro che se un protagonista vive passioni sfrenate è perché teme i sentimenti, ma anche di aprirsi a emozioni che lo hanno ferito, per questo non si fida, per questo fa le scarpe agli altri. Ma, come detto, queste caratterizzazioni sono in realtà quattro racconti diversi. È necessario trovare il trauma specifico, la domanda specifica che lo rappresenta, che rappresenta il suo particolare impedimento, e avrete ‘in pugno’ il vostro protagonista.

Se un protagonista vive passioni sfrenate, da piccolo avrà subìto, direttamente o indirettamente, lesioni o ferite riferibili ad un’affettività mancata. Non può, per esempio, essere orfano di genitori morti in un incidente stradale (anche se nella realtà non si potrebbe escludere). Sappiamo per esperienza che chi ha perduto i genitori da piccolo tende generalmente a chiudersi dentro di sé.
Se un protagonista si esprime violentemente, non possiamo rappresentarlo da piccolo colpito da una malattia invalidante. Magari invece avrà avuto un padre violento o sarà cresciuto in mezzo alla strada.
Se una protagonista femminile ha molte qualità e non riesce a esprimerle per esempio nel lavoro, probabilmente avrà avuto una madre che mortificava la sua femminilità, oppure un padre che la sottostimava (magari tutt’e due).

I genitori possono non essere più in campo (se il protagonista ha superato i venti-venticinque anni in genere non se ne parla più), ma ciò che il nostro protagonista è diventato li comprende incarnando il trauma da loro ereditato. Cioè una parte di sé ormai è diventata quel trauma nell’incapacità di essere felice. Quindi è con questo suo essere adesso ‘quel problema’ che deve fare i conti, e l’autore dovrà rificcarcelo catarticamente.

Ci sono decine e decine di film che espongono questo ‘teorema’ in maniera quasi meccanica: il poliziotto ha provocato inavvertitamente un danno a un bambino e si ritrova a fare il poliziotto in una scuola elementare; una donna ha perso un figlio e si ritrova a fare la baby-sitter; un criminale vuole abbandonare il crimine e viene rituffato in una rapina; una donna vuole imparare a conoscersi meglio e si ritrova con un uomo che vuole assolutamente sposarla.

Questi impedimenti e resistenze sono il coperchio che lo stesso protagonista si è creato nel tempo (inconsapevolmente) comprimendo le proprie ambizioni, la propria giusta aspirazione a una vita emotiva piena e soddisfacente. Nessuno è più “colpevole” di lui, dovrà scoprirlo.

Per concludere, possiamo considerare l’idea di ‘farcela’ il problema specifico del protagonista che incontra il proprio limite come opportunità, il ‘diritto a esistere’ come prezzo da pagare, che nessuno può desiderare quanto lui, a che altri non possono pagare al suo posto.