mercoledì 27 maggio 2015

IL DIAVOLO SI NASCONDE NEL SECONDO ATTO


Il secondo atto è sempre il più ostico. A volte noioso da scrivere, non vedi l’ora che finisca. Nel primo piazzi tutte le pedine, nel terzo fai esplodere la bomba. E nel secondo?

Quando pensi ad un racconto l’inizio ce l’hai, è ciò che t’ha suggestionato, l’idea che t’è venuta. E se il tizio si ritrovasse nella tale situazione? Cosa succederebbe al tal’altro se gli capitasse un evento del genere? Basta un episodio clamoroso che ci è successo, e già s’intravede una storia. Quante volte vi sarà capitato di sentir dire da un amico o da chi comunque sapeva che facevate lo scrittore: eh, se sapessi, sulla mia vita ci potresti scrivere un romanzo! Oppure, più minimalista, e forse realista: lo sai che m’è capitata una cosa: da scriverci un film!

E questo ce l’avete.

Poi, in una sorta di sfida mentale con voi stessi, vi proiettate davanti agli occhi il possibile finale: beh, se a tizio capitasse questa tal cosa, sarebbe bello che finisse così.

E c’avete anche il finale.

E in mezzo che ci scrivo? Perché un romanzo non può essere di una cinquantina di pagine (calcolando una media di 200/250 pagine), né un film può durare mezz’ora (a meno che non sia un corto o mediometraggio, ma lì il discorso è diverso).

Quindi nel mezzo ci metto…

Nel mezzo ci va la cosa più complicata da intercettare. La resistenza del protagonista.

Ma resistenza a cosa?

Una breve digressione: se penso a un uomo o a una donna che mettiamo vogliano diventare astronauta, è naturale immaginare in questo percorso una serie di difficoltà che infine lo porteranno o la porteranno a realizzare quel sogno. Si immagina un’ascesa, dalle stalle alle stelle (proprio il caso di dirlo). È un’ascesa, lui che salta ostacolo dopo ostacolo fino alla vetta. Si tratterebbe dunque di trovare una serie di impedimenti per rafforzare la determinazione del protagonista, fino all’apogeo del finale, magari dentro l’astronave. La digressione, meno breve del previsto, per dire questo: ma i suoi problemi sono puramente esterni? Tipo la mamma che ha paura che si perda nello spazio, o la fidanzata che teme che s’innamori della collega di bordo, o il corso per astronauta degno per difficoltà di un Pitagora e di un Icaro messi insieme? Anche questo, ma…

… e qui torniamo in diretta, la parte essenziale è scoprire cosa, nel secondo atto, impedisce al protagonista di essere ciò che vorrebbe essere. E questo ha solo in parte a che fare con gli impedimenti esterni, detti ‘di plot’. Il vero ostacolo, l’altra parte, è lui stesso. Sa di potercela fare, è ambizioso o innamorato abbastanza. Com’è che allora non lo mettono subito a bordo di un’astronave o a dichiarare amore eterno alla bella un attimo dopo aver perso la testa per lei?

Troppo facile, inverosimile. Si deve prima ‘scornare’. Con sé stesso. Coi suoi limiti. Quelli che da anni e anni lo costringono a sognare di diventare astronauta e a non riuscirci. A sognare un amore travolgente e a non ‘poterselo permettere’. Perché?

La cosa più ardua da accettare è che ciascuno di noi, a un certo punto della vita, s’accorge di aver immaginato una vita che alla realtà pare non corrispondere affatto. Quell’idea ce l’ha e ora, giunto a un certo punto dell’esistenza, dopo varie esperienze, ce l’ha persino più chiara. Ma allora perché non si realizza?

Qualcuno, a tal proposito, ha detto che non è difficile immaginare la vita che vorremmo, il difficile è mollare quella che abbiamo. Una vita di abitudini, di cose costruite, spesso edificanti, remunerative magari, di immagini che ci rappresentano, di consuetudini ormai divenute noi.

Ecco, nel secondo atto si racconta questo: le consuetudini che tengono a terra il protagonista impedendogli di volare. Qui le specifiche psicologiche legate al suo carattere s’impongono a spiegazione, ma non è di questo che intendiamo parlare.

Naturalmente ogni protagonista avrà limiti caratteriali che gli freneranno la corsa, ma il punto qui è segnalare questa ‘lacuna’ nel suo senso generale.

Ostacoli come minaccia di perdita.

La perdita di una stabilità precaria ma funzionante. Una minaccia alla propria stabilità. Come dire che nel secondo atto il protagonista si àncora al proprio “peggio”. Lo tiene stretto, lo difende, lo protegge. La vita che sognava lo blandisce, gli ammicca, lo lusinga e lui… niente, le resiste.

Incredibile ma vero.

Il detto che siamo il peggior nemico di noi stessi, gran parte delle volte corrisponde a sacrosanta verità. E accorgersi che abbiamo un debito di riconoscenza nei confronti del nostro “peggio” (inteso come costrizioni sociali, morali o psicologiche), che ci ricatta e ci tiene stretti a lui, in un tepore che è sempre meglio del gelo che temiamo, è davvero sorprendente.

Sorprendente il considerare vita ciò che in realtà non lo è (e dentro di noi lo sappiamo benissimo!)

Il protagonista, come noi a volte, nel secondo atto si dibatte, si inalbera, lancia strali, pietisce, fa di tutto per non staccarsi dal giogo che gli piega la testa. Ci argomenta sopra, lo trova plausibile, inevitabile, fatale, persino umano… e come dargli torto: deve ancora incontrare il terzo atto!

Quindi il secondo atto è sostanzialmente questo: l’apologia del ‘vorrei ma non posso’ del protagonista. Un ‘non posso’ che s’eleva a valore, a identità. Tutto ciò che lo ha costituito fino ad allora trama dentro di lui perché lui non ne esca. Ciò è forte e resistente, anche perché gran parte delle volte impercettibile alla vista.

Una vecchia abitudine, una ‘normale’ vecchia abitudine. Un semplice gesto ripetuto per anni, ormai invisibile agli occhi, che finisce per esser considerato addirittura  espressione del nostro carattere, attraverso il quale mutuiamo dal prossimo ciò che altrimenti, senza quel gesto, mai ci verrebbe riconosciuto. Una considerazione, un apprezzamento, un sorriso. Lo sappiamo, ma quell'abitudine la ripetiamo senza farci troppe domande, per una vita magari. Se serve…

Il diavolo si nasconde nei dettagli.


sabato 21 marzo 2015

SI RIPARTE DALLA FARFALLA



Grandissimo Robin in PATCH ADAMS scritto da STEVE OEDEKERK su soggetto del vero Patch Adams, ideatore della terapia olistica. Questa è la scena dopo il Punto di Morte, alla fine del secondo atto. È la ripartenza che conduce al climax. Ispirata da una farfalla che è diventata la 'nostra farfalla'. L'elemento emotivo che richiama il protagonista alla vita, alla reazione, al 'farcela adesso' finale. La bellezza del momento in cui si ha la piena visione di noi stessi, sentendoci nel profondo, artefici non più spettatori. L'attimo in cui la Vita sopraffà la Morte, e noi siamo certi che sia successo, e che possa succedere. Un attimo, un istante in cui sentiamo di farcela con noi stessi. Dopodiché c'è il Climax, dove la nuova energia si rappresenta. Ed è la vita. Quella che abbiamo sempre sognato.

giovedì 12 febbraio 2015

A PROPOSITO DI STRUTTURA...


Durante alcune lezioni online, nel focalizzare il ‘sottotesto’ del racconto di uno sceneggiatore o di uno scrittore, è capitato di discutere di struttura narrativa, ‘scocca’ sulla quale montare gli elementi narrativi. Chiacchiere da cui sono emerse ‘immagini’ che desideravo offrire ai lettori del blog come spunto di riflessione.

Quante volte è capitato di voler esprimere una semplice cosa, di aver percepito la stringente necessità di esprimerla, il sacrosanto diritto ad esprimerla, e alla fine di aver detto: ‘io? No, grazie, va benissimo così.’ Oppure di essere arrossiti nel sussulto di quella necessità, o persino di essersi arrabbiati con colui che ci sollecitava a esprimerla; addirittura arrabbiati con noi stessi per aver provato il bisogno di esprimerla, diritto che, “infame destino”, non ci spetta. In un batter d’occhio, il bianco si è trasformato in nero. Naturalmente anche nella capacità di sapersi adattare, di saper accettare ciò che non riusciamo a modificare, a patto che quest’‘adattamento’ non diventi una virtù.

Ciò che ha subìto una trasformazione, è la nostra profonda emozione che nella risalita ha incontrato ostacoli educativi, sociali, morali che ne hanno assorbito la luce fino a farla uscire dalla nostra bocca con parole che persino possono aver negato quell’esigenza. Capita.
Penso alla mia infanzia, a cosa ero quando ero un ragazzino. Da cosa ero mosso, cosa sognavo. Le fantasie e gli entusiasmi. Quanto sono riuscito a realizzare, quanto in quella risalita è andato perduto. E perché. Penso anche se dalla faccetta magra e curiosa che avevo si fosse potuto intuire ciò che sarebbe stato, qualcosa del carattere che avrei formato. Forse sì, e comunque si scopre dopo. Cosa c’era allora che adesso non c’è più o si è trasformato nel suo reliquiario? Cos’ha prodotto questa trasformazione negli anni?
Quanto ci sfugge della conoscenza di noi stessi. E quanto a volte l’idea di saperlo e di non poterci fare niente ci fa stare male.
Possiamo provare a pensare alla giornata di ieri. Cosa ricordiamo? Niente di significativo? Ahimè… Forse la solita routine? Niente che ci abbia spaccato il cuore di gioia? Niente che ci abbia fatto piangere fiumi di disperazione?
Ecco cosa molto probabilmente è successo ieri da quando ci siamo svegliati a quando siamo andati a letto: alzati energici, volonterosi, comunque pronti a dare battaglia, e dopo ore di traffico e duro lavoro, relazioni complicate, e conflitti, e chiarimenti, ci siamo spiattellati sul divano davanti a un talk show. A sognare guardando  ‘chi ce l’ha fatta’. Oggi è stato diverso? Non è un bel racconto, questo? Non se ne potrebbe ricavare una bella storia?
La nostra energia vitale si è trasformata in spossatezza e apatia. Eppure… eppure il desiderio di qualcosa di diverso, di sublime, rimane, dentro. La speranza. La fatale, fedele speranza.

Ecco, questa è la struttura narrativa. Un’emozione che durante il percorso di risalita si trasforma in altro a causa di ostacoli psicologi, morali o sociali.
Nel racconto partiamo dalla fine per far tornare il protagonista all’inizio. Partiamo dalla sua destinazione sbagliata e andiamo verso il punto da cui è partito, alle sue migliori intenzioni. Da una luce spenta, a una sorgente di luce. Un viaggio a ritroso, se consideriamo che ciò che avviene in una narrazione è qualcosa che procede in avanti, verso la fine, verso il climax. Prima del climax c’è il punto di morte, l’intima, angosciosa sensazione – noi seduti sul divano - che l’indomani le cose potrebbero non andare diversamente. Domani è un altro giorno…

Tutti i racconti sono sostanzialmente uguali nel raccontare di una difficoltà che tende alla propria soluzione, fino cioè a quel divano (il nostro punto di morte alla fine del secondo atto). Nel terzo atto, rimotivazione e climax, c’è il messaggio di chi scrive, la volontà di provocare sostenendo la tesi che non vi siano alternative al divano, mettendo così il lettore o lo spettatore davanti a uno specchio, oppure suggerire che ‘reagendo al divano’ tutto può rinascere a nuova vita, il tanto vituperato lieto fine. “… E quindi uscimmo a riveder le stelle…’

Nel momento stesso in cui riusciamo ad esprimerci in maniera qualificata, anche soltanto per dire quello che pensiamo alla persona che ce lo ha sempre impedito (o che abbiamo immaginato ce lo impedisse), sappiamo che la nostra vita può essere diversa. Una sensazione di forza che ci rimette al centro del mondo e di noi stessi. Un racconto che può durare il tempo di una breve emozione. Un’emozione che può durare una vita. Capire come una paura la blocca nella sua risalita, attiene alla struttura narrativa.

Dal divano ci siamo alzati gonfiando il petto e abbiamo affrontato il mondo senza aspettative risarcitorie. Evviva! È il lieto fine.
Continui ostacoli a cui sottoponiamo il nostro protagonista, e spesso noi stessi, impediscono di dire o di fare quello che vorremmo, ci tolgono forza e energie, ci ‘spengono’. Una cultura sociale che ci ha mortificato, ‘leggi divine’ che hanno umiliato e inibito i nostri aneliti, familiari troppo presi a lottare contro i propri fallimenti emotivi per riuscire a dare forza ed evidenza alle aspettative filiali.

Da questo punto di vista, lo scopo di chi scrive non è diverso, raggiungere attraverso i suoi personaggi quella ‘luce’. Un “lavoro” dal quale egli vuole uscire con una risposta qualificata. Il fulmine che il protagonista temeva lo colpisse scopre che non esiste, e di colpo si accorge che fuori è una splendida giornata di sole. E chi scrive allora chiude gli occhi per quei raggi abbaglianti.