giovedì 12 febbraio 2015

A PROPOSITO DI STRUTTURA...


Durante alcune lezioni online, nel focalizzare il ‘sottotesto’ del racconto di uno sceneggiatore o di uno scrittore, è capitato di discutere di struttura narrativa, ‘scocca’ sulla quale montare gli elementi narrativi. Chiacchiere da cui sono emerse ‘immagini’ che desideravo offrire ai lettori del blog come spunto di riflessione.

Quante volte è capitato di voler esprimere una semplice cosa, di aver percepito la stringente necessità di esprimerla, il sacrosanto diritto ad esprimerla, e alla fine di aver detto: ‘io? No, grazie, va benissimo così.’ Oppure di essere arrossiti nel sussulto di quella necessità, o persino di essersi arrabbiati con colui che ci sollecitava a esprimerla; addirittura arrabbiati con noi stessi per aver provato il bisogno di esprimerla, diritto che, “infame destino”, non ci spetta. In un batter d’occhio, il bianco si è trasformato in nero. Naturalmente anche nella capacità di sapersi adattare, di saper accettare ciò che non riusciamo a modificare, a patto che quest’‘adattamento’ non diventi una virtù.

Ciò che ha subìto una trasformazione, è la nostra profonda emozione che nella risalita ha incontrato ostacoli educativi, sociali, morali che ne hanno assorbito la luce fino a farla uscire dalla nostra bocca con parole che persino possono aver negato quell’esigenza. Capita.
Penso alla mia infanzia, a cosa ero quando ero un ragazzino. Da cosa ero mosso, cosa sognavo. Le fantasie e gli entusiasmi. Quanto sono riuscito a realizzare, quanto in quella risalita è andato perduto. E perché. Penso anche se dalla faccetta magra e curiosa che avevo si fosse potuto intuire ciò che sarebbe stato, qualcosa del carattere che avrei formato. Forse sì, e comunque si scopre dopo. Cosa c’era allora che adesso non c’è più o si è trasformato nel suo reliquiario? Cos’ha prodotto questa trasformazione negli anni?
Quanto ci sfugge della conoscenza di noi stessi. E quanto a volte l’idea di saperlo e di non poterci fare niente ci fa stare male.
Possiamo provare a pensare alla giornata di ieri. Cosa ricordiamo? Niente di significativo? Ahimè… Forse la solita routine? Niente che ci abbia spaccato il cuore di gioia? Niente che ci abbia fatto piangere fiumi di disperazione?
Ecco cosa molto probabilmente è successo ieri da quando ci siamo svegliati a quando siamo andati a letto: alzati energici, volonterosi, comunque pronti a dare battaglia, e dopo ore di traffico e duro lavoro, relazioni complicate, e conflitti, e chiarimenti, ci siamo spiattellati sul divano davanti a un talk show. A sognare guardando  ‘chi ce l’ha fatta’. Oggi è stato diverso? Non è un bel racconto, questo? Non se ne potrebbe ricavare una bella storia?
La nostra energia vitale si è trasformata in spossatezza e apatia. Eppure… eppure il desiderio di qualcosa di diverso, di sublime, rimane, dentro. La speranza. La fatale, fedele speranza.

Ecco, questa è la struttura narrativa. Un’emozione che durante il percorso di risalita si trasforma in altro a causa di ostacoli psicologi, morali o sociali.
Nel racconto partiamo dalla fine per far tornare il protagonista all’inizio. Partiamo dalla sua destinazione sbagliata e andiamo verso il punto da cui è partito, alle sue migliori intenzioni. Da una luce spenta, a una sorgente di luce. Un viaggio a ritroso, se consideriamo che ciò che avviene in una narrazione è qualcosa che procede in avanti, verso la fine, verso il climax. Prima del climax c’è il punto di morte, l’intima, angosciosa sensazione – noi seduti sul divano - che l’indomani le cose potrebbero non andare diversamente. Domani è un altro giorno…

Tutti i racconti sono sostanzialmente uguali nel raccontare di una difficoltà che tende alla propria soluzione, fino cioè a quel divano (il nostro punto di morte alla fine del secondo atto). Nel terzo atto, rimotivazione e climax, c’è il messaggio di chi scrive, la volontà di provocare sostenendo la tesi che non vi siano alternative al divano, mettendo così il lettore o lo spettatore davanti a uno specchio, oppure suggerire che ‘reagendo al divano’ tutto può rinascere a nuova vita, il tanto vituperato lieto fine. “… E quindi uscimmo a riveder le stelle…’

Nel momento stesso in cui riusciamo ad esprimerci in maniera qualificata, anche soltanto per dire quello che pensiamo alla persona che ce lo ha sempre impedito (o che abbiamo immaginato ce lo impedisse), sappiamo che la nostra vita può essere diversa. Una sensazione di forza che ci rimette al centro del mondo e di noi stessi. Un racconto che può durare il tempo di una breve emozione. Un’emozione che può durare una vita. Capire come una paura la blocca nella sua risalita, attiene alla struttura narrativa.

Dal divano ci siamo alzati gonfiando il petto e abbiamo affrontato il mondo senza aspettative risarcitorie. Evviva! È il lieto fine.
Continui ostacoli a cui sottoponiamo il nostro protagonista, e spesso noi stessi, impediscono di dire o di fare quello che vorremmo, ci tolgono forza e energie, ci ‘spengono’. Una cultura sociale che ci ha mortificato, ‘leggi divine’ che hanno umiliato e inibito i nostri aneliti, familiari troppo presi a lottare contro i propri fallimenti emotivi per riuscire a dare forza ed evidenza alle aspettative filiali.

Da questo punto di vista, lo scopo di chi scrive non è diverso, raggiungere attraverso i suoi personaggi quella ‘luce’. Un “lavoro” dal quale egli vuole uscire con una risposta qualificata. Il fulmine che il protagonista temeva lo colpisse scopre che non esiste, e di colpo si accorge che fuori è una splendida giornata di sole. E chi scrive allora chiude gli occhi per quei raggi abbaglianti.