Durante alcune lezioni online,
nel focalizzare il ‘sottotesto’ del racconto di uno sceneggiatore o di uno
scrittore, è capitato di discutere di struttura narrativa, ‘scocca’ sulla quale
montare gli elementi narrativi. Chiacchiere da cui sono emerse ‘immagini’ che
desideravo offrire ai lettori del blog come spunto di riflessione.
Quante volte è capitato di voler
esprimere una semplice cosa, di aver percepito la stringente necessità di
esprimerla, il sacrosanto diritto ad esprimerla, e alla fine di aver detto:
‘io? No, grazie, va benissimo così.’ Oppure di essere arrossiti nel sussulto di
quella necessità, o persino di essersi arrabbiati con colui che ci sollecitava
a esprimerla; addirittura arrabbiati con noi stessi per aver provato il bisogno
di esprimerla, diritto che, “infame destino”, non ci spetta. In un batter
d’occhio, il bianco si è trasformato in nero. Naturalmente anche nella capacità
di sapersi adattare, di saper accettare ciò che non riusciamo a modificare, a
patto che quest’‘adattamento’ non diventi una virtù.
Ciò che ha subìto una
trasformazione, è la nostra profonda emozione che nella risalita ha incontrato
ostacoli educativi, sociali, morali che ne hanno assorbito la luce fino a farla
uscire dalla nostra bocca con parole che persino possono aver negato
quell’esigenza. Capita.
Penso alla mia infanzia, a cosa
ero quando ero un ragazzino. Da cosa ero mosso, cosa sognavo. Le fantasie e gli
entusiasmi. Quanto sono riuscito a realizzare, quanto in quella risalita è
andato perduto. E perché. Penso anche se dalla faccetta magra e curiosa che
avevo si fosse potuto intuire ciò che sarebbe stato, qualcosa del carattere che avrei formato. Forse sì, e
comunque si scopre dopo. Cosa c’era allora che adesso non c’è più o si è
trasformato nel suo reliquiario? Cos’ha prodotto questa trasformazione negli
anni?
Quanto ci sfugge della conoscenza di noi stessi. E quanto a volte l’idea di saperlo e di non poterci fare niente ci fa
stare male.
Possiamo provare a pensare alla
giornata di ieri. Cosa ricordiamo? Niente di significativo? Ahimè… Forse la
solita routine? Niente che ci abbia spaccato il cuore di gioia? Niente che ci
abbia fatto piangere fiumi di disperazione?
Ecco cosa molto probabilmente è
successo ieri da quando ci siamo svegliati a quando siamo andati a letto:
alzati energici, volonterosi, comunque pronti a dare battaglia, e dopo ore di
traffico e duro lavoro, relazioni complicate, e conflitti, e chiarimenti, ci
siamo spiattellati sul divano davanti a un talk show. A sognare guardando ‘chi
ce l’ha fatta’. Oggi è stato diverso? Non è un bel racconto, questo? Non se ne
potrebbe ricavare una bella storia?
La nostra energia vitale si è
trasformata in spossatezza e apatia. Eppure… eppure il desiderio di qualcosa di
diverso, di sublime, rimane, dentro. La speranza. La fatale, fedele speranza.
Ecco, questa è la struttura
narrativa. Un’emozione che durante il percorso di risalita si trasforma in
altro a causa di ostacoli psicologi, morali o sociali.
Nel racconto partiamo dalla fine
per far tornare il protagonista all’inizio. Partiamo dalla sua destinazione
sbagliata e andiamo verso il punto da cui è partito, alle sue migliori
intenzioni. Da una luce spenta, a una sorgente di luce. Un viaggio a ritroso,
se consideriamo che ciò che avviene in una narrazione è qualcosa che procede in
avanti, verso la fine, verso il climax.
Prima del climax c’è il punto di morte,
l’intima, angosciosa sensazione – noi seduti sul divano - che l’indomani le
cose potrebbero non andare diversamente. Domani
è un altro giorno…
Tutti i racconti sono
sostanzialmente uguali nel raccontare di una difficoltà che tende alla propria
soluzione, fino cioè a quel divano (il nostro punto di morte alla fine del
secondo atto). Nel terzo atto, rimotivazione
e climax, c’è il messaggio di chi scrive, la volontà di provocare sostenendo la
tesi che non vi siano alternative al divano, mettendo così il lettore o lo
spettatore davanti a uno specchio, oppure suggerire che ‘reagendo al divano’
tutto può rinascere a nuova vita, il
tanto vituperato lieto fine. “… E
quindi uscimmo a riveder le stelle…’
Nel momento stesso in cui
riusciamo ad esprimerci in maniera qualificata, anche soltanto per dire quello
che pensiamo alla persona che ce lo ha sempre impedito (o che abbiamo
immaginato ce lo impedisse), sappiamo che la nostra vita può essere diversa.
Una sensazione di forza che ci rimette al centro del mondo e di noi stessi. Un
racconto che può durare il tempo di una breve emozione. Un’emozione che può
durare una vita. Capire come una paura la blocca nella sua risalita, attiene
alla struttura narrativa.
Dal divano ci siamo alzati
gonfiando il petto e abbiamo affrontato il mondo senza aspettative
risarcitorie. Evviva! È il lieto fine.
Continui ostacoli a cui
sottoponiamo il nostro protagonista, e spesso noi stessi, impediscono di dire o
di fare quello che vorremmo, ci tolgono forza e energie, ci ‘spengono’. Una
cultura sociale che ci ha mortificato, ‘leggi divine’ che hanno umiliato e
inibito i nostri aneliti, familiari troppo presi a lottare contro i propri
fallimenti emotivi per riuscire a dare forza ed evidenza alle aspettative
filiali.
Da questo punto di vista, lo
scopo di chi scrive non è diverso, raggiungere attraverso i suoi personaggi
quella ‘luce’. Un “lavoro” dal quale egli vuole uscire con una risposta
qualificata. Il fulmine che il protagonista temeva lo colpisse scopre che non
esiste, e di colpo si accorge che fuori è una splendida giornata di sole. E chi
scrive allora chiude gli occhi per quei raggi abbaglianti.