Il
secondo atto è sempre il più ostico. A volte noioso da scrivere, non vedi l’ora
che finisca. Nel primo piazzi tutte le pedine, nel terzo fai esplodere la
bomba. E nel secondo?
Quando
pensi ad un racconto l’inizio ce l’hai, è ciò che t’ha suggestionato, l’idea
che t’è venuta. E se il tizio si ritrovasse nella tale situazione? Cosa
succederebbe al tal’altro se gli capitasse un evento del genere? Basta un
episodio clamoroso che ci è successo, e già s’intravede una storia. Quante
volte vi sarà capitato di sentir dire da un amico o da chi comunque sapeva che
facevate lo scrittore: eh, se sapessi, sulla mia vita ci potresti scrivere un
romanzo! Oppure, più minimalista, e forse realista: lo sai che m’è capitata una
cosa: da scriverci un film!
E questo
ce l’avete.
Poi, in
una sorta di sfida mentale con voi stessi, vi proiettate davanti agli occhi il
possibile finale: beh, se a tizio capitasse questa tal cosa, sarebbe bello che
finisse così.
E
c’avete anche il finale.
E in
mezzo che ci scrivo? Perché un romanzo non può essere di una cinquantina di
pagine (calcolando una media di 200/250 pagine), né un film può durare mezz’ora
(a meno che non sia un corto o mediometraggio, ma lì il discorso è diverso).
Quindi nel
mezzo ci metto…
Nel
mezzo ci va la cosa più complicata da intercettare. La resistenza del
protagonista.
Ma
resistenza a cosa?
Una
breve digressione: se penso a un uomo o a una donna che mettiamo vogliano
diventare astronauta, è naturale immaginare in questo percorso una serie di
difficoltà che infine lo porteranno o la porteranno a realizzare quel sogno. Si
immagina un’ascesa, dalle stalle alle stelle (proprio il caso di dirlo). È un’ascesa,
lui che salta ostacolo dopo ostacolo fino alla vetta. Si tratterebbe dunque di
trovare una serie di impedimenti per rafforzare la determinazione del
protagonista, fino all’apogeo del finale, magari dentro l’astronave. La
digressione, meno breve del previsto, per dire questo: ma i suoi problemi sono puramente
esterni? Tipo la mamma che ha paura che si perda nello spazio, o la fidanzata
che teme che s’innamori della collega di bordo, o il corso per astronauta degno
per difficoltà di un Pitagora e di un Icaro messi insieme? Anche questo, ma…
… e qui
torniamo in diretta, la parte essenziale è scoprire cosa, nel secondo atto,
impedisce al protagonista di essere ciò che vorrebbe essere. E questo ha solo
in parte a che fare con gli impedimenti esterni, detti ‘di plot’. Il vero
ostacolo, l’altra parte, è lui stesso. Sa di potercela fare, è ambizioso o
innamorato abbastanza. Com’è che allora non lo mettono subito a bordo di
un’astronave o a dichiarare amore eterno alla bella un attimo dopo aver perso
la testa per lei?
Troppo
facile, inverosimile. Si deve prima ‘scornare’. Con sé stesso. Coi suoi limiti.
Quelli che da anni e anni lo costringono a sognare di diventare astronauta e a
non riuscirci. A sognare un amore travolgente e a non ‘poterselo permettere’.
Perché?
La cosa
più ardua da accettare è che ciascuno di noi, a un certo punto della vita,
s’accorge di aver immaginato una vita che alla realtà pare non corrispondere
affatto. Quell’idea ce l’ha e ora, giunto a un certo punto dell’esistenza, dopo
varie esperienze, ce l’ha persino più chiara. Ma allora perché non si realizza?
Qualcuno,
a tal proposito, ha detto che non è difficile immaginare la vita che vorremmo,
il difficile è mollare quella che abbiamo. Una vita di abitudini, di cose
costruite, spesso edificanti, remunerative magari, di immagini che ci
rappresentano, di consuetudini ormai divenute noi.
Ecco,
nel secondo atto si racconta questo: le consuetudini che tengono a terra il
protagonista impedendogli di volare. Qui le specifiche psicologiche legate al
suo carattere s’impongono a spiegazione, ma non è di questo che intendiamo
parlare.
Naturalmente
ogni protagonista avrà limiti caratteriali che gli freneranno la corsa, ma il
punto qui è segnalare questa ‘lacuna’ nel suo senso generale.
Ostacoli
come minaccia di perdita.
La
perdita di una stabilità precaria ma funzionante. Una minaccia alla propria
stabilità. Come dire che nel secondo atto il protagonista si àncora al proprio “peggio”.
Lo tiene stretto, lo difende, lo protegge. La vita che sognava lo blandisce,
gli ammicca, lo lusinga e lui… niente, le resiste.
Incredibile
ma vero.
Il detto
che siamo il peggior nemico di noi stessi, gran parte delle volte corrisponde a
sacrosanta verità. E accorgersi che abbiamo un debito di riconoscenza nei
confronti del nostro “peggio” (inteso come costrizioni sociali, morali o
psicologiche), che ci ricatta e ci tiene stretti a lui, in un tepore che è
sempre meglio del gelo che temiamo, è davvero sorprendente.
Sorprendente
il considerare vita ciò che in realtà non lo è (e dentro di noi lo sappiamo
benissimo!)
Il
protagonista, come noi a volte, nel secondo atto si dibatte, si inalbera,
lancia strali, pietisce, fa di tutto per non staccarsi dal giogo che gli piega
la testa. Ci argomenta sopra, lo trova plausibile, inevitabile, fatale, persino
umano… e come dargli torto: deve ancora incontrare il terzo atto!
Quindi
il secondo atto è sostanzialmente questo: l’apologia del ‘vorrei ma non posso’ del
protagonista. Un ‘non posso’ che s’eleva a valore, a identità. Tutto ciò che lo
ha costituito fino ad allora trama dentro di lui perché lui non ne esca. Ciò è
forte e resistente, anche perché gran parte delle volte impercettibile alla
vista.
Una
vecchia abitudine, una ‘normale’ vecchia abitudine. Un semplice gesto ripetuto per
anni, ormai invisibile agli occhi, che finisce per esser considerato
addirittura espressione del nostro
carattere, attraverso il quale mutuiamo dal prossimo ciò che altrimenti,
senza quel gesto, mai ci verrebbe riconosciuto. Una considerazione, un
apprezzamento, un sorriso. Lo sappiamo, ma quell'abitudine la ripetiamo senza farci troppe domande, per una vita magari. Se serve…
Il
diavolo si nasconde nei dettagli.
Ciao Mauro, il discorso sul secondo sarebbe lunghissimo, perché ci sono tanti di quei elementi di cui tener conto oltre al protagonista.
RispondiEliminaPersonalmente, credo che l'atteggiamento migliore mentre lo pensi e poi lo scrivi, sia quello di avere pazienza. È vero: è relativamente facile scrivere il primo atto, mentre nel secondo, che è la prova del nove di qualsiasi script, il tentativo è quello di creare nuova linfa vitale da dare ai personaggi e alla storia stessa.
La ciccia vera, quella che arriva dalle viscere, è qui e non nel primo atto. Bisogna combattere, non perdersi d'animo se non si trova l'idea giusta, ma se i personaggi 'rispondono' bene agli stimoli, emerge qualcosa di nuovo, a volte anche di imprevisto, capace di dare al film un'energia che forse nel momento della scaletta e del trattamento non era stato ancora messa a fuoco o immaginata.
Questo per arrivare meglio equipaggiati al terzo atto, che secondo me rimane complicato. Anche se hai bene in mente un finale, ci arrivi bene solo se hai scritto un buon secondo atto. Altrimenti ti fai prendere dal panico per finirlo e in genere lo fai in fretta.
Grazie per il tuo articolo, fa sempre piacere conoscere altri punti di vista.