Immagino spesso che il climax dovrebbe rappresentare la condizione in cui
dovremmo vivere costantemente, in un buon’umore prodotto dalla capacità di
emozionarsi, arrivando persino a considerare la spensieratezza – come scritto
da Max Stirner – il momento filosofico più alto. Contrariamente a ciò che in
genere avviene, a mio avviso, con certe dottrine o discipline
pseudo-orientaleggianti che ci convinciamo che ci facciano stare meglio. Non si
esce da una difficoltà con un bel discorso, piuttosto con una profonda reazione
vitale.
Certo non è facile trovare nella vita di tutti i giorni lo spirito giusto,
invasi da problemi spesso non nostri o angustiati dalle nostre aspirazioni
irrealizzate, ed è proprio questa risposta vitale a fare la differenza. Infatti
uno stesso problema visto con umore diverso improvvisamente si può trasformare
in risibile contrattempo. La possibilità di una risposta vitale rende tutto
meno ostile e insormontabile.
È questo il climax, è questa l’opportunità che ci offre. Sentire quel
brivido lungo la schiena o farci gonfiare gli occhi di lacrime perché è proprio
lì, in quel preciso punto, che si rigenera la vita, un momento in cui corpo e
psiche reagiscono contemporaneamente e ci danno una sensazione di pienezza. La
Vita è essenzialmente questa ‘reazione’, e quando noi la percepiamo, percepiamo
la Vita.
(Il CLIMAX dovrebbe portare alla catarsi,
che in greco significa ‘espiazione’ ‘purificazione’. Ma a me piace pensare che non
sia una colpa da espiare, di cui doversi purificare, ma di provare emozioni.
“Colpa” intesa come mancata libertà attraverso la quale “espiare” la grigia
vita che ci può toccare in sorte).
Nelle Storie d’Amore il protagonista, dopo aver cavalcato giorni o
slalomato con una moto in mezzo al traffico o corso a perdifiato per quattro
isolati, raggiunge la donna che ama in procinto di partire, e la esorta ad
ascoltare quello che finalmente riesce a dirle… È il climax!
Ugualmente, nelle Storie di Morte, il protagonista salta sul primo mezzo di
locomozione che trova, distrugge un mercato ortofrutticolo, una dozzina di
vetrine e un chiosco gelati, poi scende a precipizio e affronta il Cattivo!
Il climax, soprattutto nelle Storie d’Amore, si sostanzia con una
partecipata dichiarazione emotiva. Un ‘discorso della montagna’ che chiarisce
il livello raggiunto dal protagonista dopo tanto travaglio (l’idea di una
nascita, o rinascita della Vita, non è impropria). ‘Discorso’ che si fa
monologo, sordo, serrato, che non accetta contraddittorio, un bisogno
fisiologico impellente e incontenibile… che il partner o la partner non possono
far altro che ascoltare, e bearsene.
Esemplificativo il ‘discorso’ di Jerry Mcguire (Tom Cruise) nell’omonimo
film che entra nella casa dove c’è la donna che ha scoperto di amare e, dopo
averla salutata con un emozionato ‘ciao…’, sviscera tutta una serie di ragioni
per cui sente di amarla e di non poter più fare a meno di lei, al termine delle
quali Dorothy Boyd (Renée Zellweger) si limita a dire soltanto un convinto e
tenero: “mi avevi già convinta al ‘ciao’”.
Non è da meno Melvin Udall (Jack Nicholson) in mezzo alla strada, all’alba,
con Carol Connelly (Helen Hunt) in “Qualcosa è cambiato”: “Io forse sono
l’unica persona sulla faccia della terra che sa che sei la donna più in gamba
della terra. Io forse sono l’unico che capisce e apprezza quanto tu sei
straordinaria per ogni singola cosa che fai… … per ogni singolo pensiero che hai,
per come dici quello che hai in mente, perché quello che dici è quasi sempre
legato profondamente con l’essere onesti, e buoni… io credo che a molte persone
sfugga questo di te, e io le osservo e mi chiedo come facciano a guardarti
mentre gli porti da mangiare e gli sparecchi il tavolo senza capire che hanno
appena visto la donna più straordinaria che esista… e il fatto che io questo lo
capisca mi fa sentire bene. Con me stesso.”
Si perde tutto nel climax, e si ritrova tutto. Si perde perché non sono più
in ballo necessità, ragioni, bisogni, diritti, c’è solo un cuore che scoppia se
qualcosa di sé, molto, non esce subito dalla bocca. Allora… ecco è la vita!
Di colpo tutto si fa tridimensionale in quello stesso cuore che batte
all’impazzata trovandosi in un luogo semplicemente straordinario, pieno di
luci, di contorni definiti, di parole chiare, di calma e di entusiasmo. È un
tuffo nell’acqua gelata d’estate, che ti mozza il fiato e ti fa gridare per
quella violenta sensazione, è un tramonto dov’è il sole che contempla te, è
energia emessa come “virus” che raggiunge e contagia chiunque. Le cose non
hanno più un senso, un valore, un significato. Le cose sono sensazioni che
vanno e tornano come onde di un sonar, che gli ostacoli, laddove vengano
incontrati, li aggira in maniera sinuosa e plastica, come acqua d’un fiume che
aggira una roccia emergente.
Nelle Storie di Morte il climax è molto meno romantico, ma ugualmente
vitale. Qui la posta in palio è la sopravvivenza, quindi uno stadio precedente
all’espressione dei sentimenti. Da morti non resta molto da esprimere. È un
climax più “arcaico”, più essenziale.
Per gusto personale, anche qui tra un’infinità di esempi, ricordo il climax
de “Gli intoccabili”, quando in tribunale Eliot Ness (Kevin Constner) riesce ad
inchiodare Al Capone (Robert De Niro) con un conclusivo, fiero e vincente:
“…Qui finisce la lezione!” Oppure le appassionate conclusioni del tenente
Daniel Kaffee (Tom Cruise) in “Codice d’Onore” contro il colonnello Nathan R.
Jessep (Jack Nicholson) a cui riesce a far perdere il controllo e a far
ammettere le proprie responsabilità. Il saluto marziale scattando sull’attenti
che i due marines tributano a Kaffee che li difendeva, è il pieno
riconoscimemto al ‘traguardo’ che lui ha raggiunto: “… Ufficiale in coperta!”
Le Storie di Morte abbracciano vari generi, e ogni genere ha il suo climax:
nell’action puro o nel western spesso è solo una scazzottata o una sparatoria
che mette fine alla lotta tra Bene e Male; nel thriller e nel poliziesco si può
aggiungere la lunga e appassionata tirata di fronte a un’assemblea di persone o
di fronte a una giuria in punta di moralità o di Legge.
Di questo genere di storie segnalo un aspetto divertente relativo a tale
snodo: se non è il collega o l’amico o il parente a morire la cui morte, poco
dopo, rimotiva il protagonista generando la ‘farfalla’, può succedere che il
poliziotto-protagonista di turno cada nella trappola del Cattivo che lo lega e
lo imbavaglia per correre ad eliminare l’ultimo scomodo testimone. Curioso, no?
Il Cattivo ha per le mani il suo peggior nemico, se lo fa fuori ha risolto
tutti i suoi problemi, invece che fa? Se lo scorda “un attimo” per andare a
fare secco qualcun altro. Questo movimento, di per sé incongruente, serve in
realtà a dare al protagonista, nel Punto di Morte, la possibilità di ritrovare
la rimotivazione per andare al climax. E la sua ‘farfalla’, in questo caso,
consiste nel fare appello alle ultime, residue forze per liberarsi da lacci e
lacciuoli. E poi via, allo scontro finale. Se, come sarebbe più sensato, il
Cattivo lo uccidesse, una volta che è caduto nella sua trappola, il film
priverebbe il nostro eroe della possibilità di liberare la sua residua forza
vitale e di andare al climax ad annientare il Cattivo.
La struttura narrativa non è l’incomprensibile invenzione di un cervellone
(al di là del fatto di come viene rappresentata), ma la raffigurazione
sintetica di un sogno che abbiamo già fatto.
Il momento è comunque solenne: psiche e corpo ‘esplodono’
contemporaneamente. È la festa della Vita. Nel climax il protagonista non può
fare altro di ciò che fa. Tutto l’arco del racconto è stato teso in modo che
ora, in questo preciso momento, il protagonista possa scoccare l’unica
determinante freccia rimasta in suo possesso: non può sbagliare.
Storico il “Luke, segui la forza!” di Star Wars (‘farfalla’). E poi Luke
arriva dove nessuno fino a quel momento aveva pensato possibile.
Chi se ne frega delle conseguenze, dell’effetto che potrà sortire, al
diavolo cosa penseranno di me… È questo il bello del climax!
L’”irresponsabilità” di ciò che si sente. La centralità dell’emozione è tale
che non si pensa più in termini di ‘risultati’. Il risultato non è contemplato
nel climax, al massimo la speranza.
Un altro piccolo, importante aspetto legato al climax.
Nelle Storie di Morte più ‘action’, il Cattivo fa la brutta fine che fa,
senza tante chiacchiere. Tuttavia il protagonista, prima di liberarsi
definitivamente del Cattivo che scivola dentro un altoforno o cade giù da una
roccia o dall’ultimo piano di un palazzo altissimo, interrompe per un istante
quell’atto per uno ‘sguardo dritto negli occhi’ o una battuta che rivendica un
accadimento precedente. Questo per non considerare la piena condizione di vita
raggiunta del protagonista diretta conseguenza della morte fisica di un altro.
La morte del Cattivo è una necessità narrativa, non del nostro eroe.
Lo stesso nelle Storie d’Amore si considera non scontata la risposta che il
protagonista riceve dalla donna che ama. Sì, sappiamo che per tutta la storia
‘i due’ non hanno fatto che cercarsi e respingersi, perciò nulla di più
scontato che finisca bene, ma quella risposta tarda di qualche attimo,
un’esitazione, l’ultima, che lascia baluginare il peggio, proprio per dare al
protagonista la sensazione (e con esso al lettore o allo spettatore) che la
piena espressione emotiva del climax giustifica sé stessa, e basta a sé stessa.
Non prevede appunto consensi, perché non è più surrogato di qualcosa, ma è
qualcosa. È la Vita piena che, in quanto tale, comprende anche il ‘peggio’.
In ultima analisi il climax rappresenta la percezione più profonda di sé
stessi, che contempla l’idea dell’esser soli come uno stato di completezza
emotiva, stabilita spesso in un film, e più diffusamente in un romanzo, da quell’istante
in cui il protagonista – giunto al discorsone della montagna - non ottiene la
risposta che il suo ‘monologo’ invoca, cioè il definitivo ‘sì’ della donna che
ama (Nel caso di protagoniste femminili, l’esito non cambia). Un attimo di
sospensione in cui, come già detto, il protagonista basta a sé stesso in
quell’espressione che è piena e totale e che comprende tutto. La completezza
l’ha raggiunta dentro di sé, il ‘sì’ e l’abbraccio dell’amata, o dell’amato,
viene a coronamento di una condizione già determinata e emotivamente
‘auto-sufficiente’. Difficoltà e problemi che adesso non lo invadono più
mutando il suo sentire e il suo agire.
Il Cattivo che doveva essere sconfitto è stato sconfitto…
Lui è riuscito a raggiungere Lei e a dirle quello che sentiva nel profondo
del cuore...
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